Scriverà a Camillo Brero negli Anni Ottanta: “Solo Venezia e Bussoleno mi han dato – e negli anni più belli della mia vita – gli spazi aperti, i larghi orizzonti, dai quali mi sono sempre sentito attratto”[1].
La città fin da subito gli sembrò triste e distante dal suo mondo; si sentiva solo, quasi prigioniero di una realtà che non comprendeva: gli mancavano gli ampi spazi, le montagne innevate, i cieli azzurri, l’affetto dei parenti, delle cuginette, degli amici. A Torino la famiglia andò ad abitare provvisoriamente in via Donizetti e poi in via Madama Cristina 77.
L’impatto con la città, con i coinquilini del palazzo – così tanti da non riuscire a ricordarseli tutti – con le strade trafficate e quel continuo via vai di gente che lo incuriosiva, sì, ma che non riuscirà mai ad affascinarlo quanto la laguna o le montagne che aveva dovuto lasciare.
Per il prosieguo degli studi i genitori lo iscrissero al quarto anno del corso inferiore dell’Istituto Magistrale Regina Margherita, che secondo la riforma Gentile prevedeva quattro anni di corso inferiore e tre anni di corso superiore. Di fronte si trovò la sezione C già ben affiatata e organizzata, con proprie dinamiche e amicizie consolidate. Valter legò un’amicizia forte e duratura con Carlo Ibolino, che abitava in Corso Spezia 35 e con Antonio Costamagna, detto Tonin.
La sezione C rimarrà molto unita anche dopo il diploma e saprà mantenere negli anni viva l’amicizia grazie a emozionanti rimpatriate dove i ricordi si intrecceranno col presente e ognuno avrà sempre qualcosa di nuovo da raccontare o qualche vecchio fatto da aggiungere ai ricordi. Quella del cinquantenario (1990) lascerà ai posteri un prezioso volume L’Arciciock (“il carciofo”)[2], preparato con cura e alla cui redazione collaborerà la gran parte degli ex compagni di classe con scritti storici, racconti, poesie e ritratti appositamente disegnati da Eugenio Moisio (deceduto mentre il volume era in stampa). Valter conserverà con orgoglio l’originale del proprio ritratto su cartoncino.
Di fronte al dilagare del pensiero unico fascista, in un clima di esaltazione di massa per la dichiarazione dell’«Impero» (9 maggio 1936)[3], i docenti dell’Istituto magistrale si sforzarono di offrire agli allievi occasioni per ampliare il raggio culturale della loro educazione e per sottrarli, almeno per qualche ora, al peso della cultura dominante. Con entusiasmo gli allievi parteciparono ai concerti organizzati dall’Istituto Magistrale; “memorabili” saranno definiti nel L’Arciciock[4] quelli dell’11 febbraio 1937 e del 17 dicembre 1937 presso il Conservatorio Musicale “Giuseppe Verdi”, Direttore d’orchestra di entrambi fu il loro insegnante di musica, Pier Giovanni Pistone (Santo Stefano Belbo 1885 – Torino 1962), autore di alcune composizioni musicali e di un libro di didattica della musica.
Come negli anni vissuti a Bussoleno, era principalmente mamma Teresa a curare l’educazione extrascolastica di Valter e per Teresa questa era essenzialmente di carattere religioso. Era felice di abitare a cinque minuti dall’oratorio salesiano del Sacro Cuore di Maria (via Oddino Morgari 11)[5]; “Cosa ci può essere di meglio?” pensava mentre vi accompagna Valter. Teresa parlava sempre di Don Bosco (come da tutti era chiamato anche dopo la sua santificazione del 1934) con ammirazione e devozione: per lei era un modello insostituibile e anche vicino perché aveva avuto i natali non lontano dai luoghi della sua fanciullezza.
Molti allievi della sezione C portavano con orgoglio al bavero della giacca lo stemma circolare dell’Azione Cattolica[6], segno tangibile della loro adesione alla Gioventù italiana di Azione Cattolica (GIAC) [7]. L’azione Cattolica in quegli anni era una delle pochissime alternative agli estremismi di sinistra e di destra, anche se gli accordi del settembre 1931 ne ostacolavano non poco le iniziative sociali[8]. All’oratorio salesiano era attiva una sezione della GIAC. Valter ne condivideva gli ideali, le iniziative sociali, educative e anche sportive. Non era soltanto un modo per avere nuove amicizie ma anche un’occasione per condividere con tanti coetanei i principi di un laicato meno liturgico e più attivo in campo sociale soprattutto nelle periferie verso coetanei più bisognosi. “La Gioventù Cattolica italiana era una cosa seria”, come la definirà Silvio Geuna[9]. Il muro che delimitava l’oratorio pareva proteggere dal fascismo imperante e dalla sua inopinabile violenza. Partecipare alla GIAC era forse un compromesso, probabilmente l’unico possibile, per evitare la fascistizzazione dell’animo oltre a quella dell’abito. Iniziarono così anni di grande impegno, che disegnarono in Valter orizzonti e prospettive nuove, fondamentali per le scelte di campo che la vita gli imporrà di compiere più tardi senza indugi, senza rimpianti. A febbraio 1938 il suo impegno fu premiato: gli venne affidata la segreteria della GIAC della parrocchia; l’incarico era impegnativo, ma Valter chiamò ad aiutarlo Carlo Ibolino e l’amicizia tra i due divenne ancor più stretta e fraterna. Organizzavano esercizi spirituali, campi estivi, pellegrinaggi, manifestazioni pubbliche, gare di cultura religiosa, Queste ultime si svolgeranno negli anni 1940-42 e si concluderanno a Roma con grandi raduni e l’udienza del papa[10]. Curavano anche la diffusione degli opuscoli e dei periodici della GIAC: Gioventù italica (pubblicato dal 1912), L’Aspirante (dal 1924), Gioventù Nova (dal 1925), Credere (dal 1938)[11].
Teresa era orgogliosa di come suo figlio, dapprima un po’ frastornato dalla grande città, aveva saputo ritagliarsi uno spazio rassicurante. Valter non aveva certo dimenticato Bussoleno; sognava spesso la sua verde valle con i monti che si rincorrevano verso l’orizzonte sotto un cielo appena spruzzato di candidi cirri e, appena se ne presentava l’occasione, organizzava con gli amici della GIAC camminate in montagna nei silenzi che tanto amava.
Nonostante le naturali marachelle adolescenziali, che spesso ricorderà nelle lettere dal Corso Allievi Ufficiali e di cui chiederà perdono ai genitori, Valter si impegnava con profitto sia nello studio, sia nel nuovo incarico di segretario della GIAC.
A complimentarsi per l’incarico fu anche il cugino Don Felice che il 22 marzo 1938 gli scriveva: “Sono veramente contento e ti faccio le mie più vive congratulazioni per la tua nomina a Segretario dell’Associazione Cattolica dei Giovani. … La notizia che appartieni ed occupi per di più un posto dirigente nell’Azione Cattolica, mi rallegra non poco e mi dà l’assicurazione dei tuoi buoni immutati propositi…Voi a Torino avete come modello Frassati”.
Pier Giorgio Frassati e la GIAC. Il riferimento non è casuale; Pier Giorgio Frassati (1901-1925) incarnava la nuova generazione di giovani cattolici; gioviale, amante della montagna, spirituale nel profondo, ma lontano dalla liturgia fine a se stessa, compassionevole e caritatevole senza vanto. Attitudini all’epoca piuttosto rare: la diffusa convinzione che lo sviluppo industriale avrebbe eliminato la povertà, portava a considerare coloro che non erano riusciti a trovare lavoro come residuo della società[12]. L’attitudine caritatevole verso i poveri non è comunque questione di fede ma semmai di giustizia, come ricorda bene Ravasi[13] richiamando un passo di Isaia dove si afferma che, se non è accompagnato dalla giustizia, il culto è una farsa. Il grande biblista trucidato dai tedeschi, P. Giuseppe Girotti, così chiosa il passo di Isaia 66, 1-2 “Dio condanna severamente il culto ipocrita”[14]. Frassati era parimenti determinato nell’opporsi alle usurpazioni e la prepotenza dilagante dei fascisti. Si veda a questo proposito la lettera di Pier Giorgio Frassati del 26 ottobre 1923 quando restituisce la propria tessera al Consiglio Direttivo del Circolo cattolico universitario “Cesare Balbo” come atto di protesta verso l’esposizione del vessillo del Circolo in occasione del passaggio di Mussolini. Non meno potente è la condanna del fascismo nella lettera del 15 aprile 1924 all’indomani della devastazione del Circolo “Cesare Balbo” e delle pesanti intimidazioni compiute dai fascisti in occasione delle elezioni dell’aprile 1924: “…con questo metodo e con peggiori il fascismo ottiene il libero consenso; le violenze perpetrate contro i circoli cattolici dovrebbero insegnare a molti quale sia lo spirito religioso che informa il partito dominante”[15]. Seguendo il suo esempio molti Giovani Cattolici erano entrati in collisione proprio con l’Azione Cattolica che nel 1931 aveva stipulato con il PNF l’accordo che imponeva ai propri iscritti e a quelli delle associazioni collegate, e dunque anche alla GIAC, di limitare la propria attività al solo ambito religioso e liturgico.
Quella del 1938 fu un’estate molto serena per Valter. Nella seconda quindicina di luglio la famiglia Stroppiana si riunì in vacanza a Chiavari e Valter, che aveva ricevuto per i suoi sedici anni una Kodac instamatic a soffietto, si specializzò in fotografie con l’autoscatto alla famiglia riunita in posa sugli scogli o sulla battima del Tigullio. Quei negativi formato 6×9 e le relative stampe riempiranno di serenità i cassetti dei ricordi anche negli anni seguenti.
Il mese di agosto lo passò tra Torino e Bussoleno, organizzando gite in montagna con gli amici della GIAC. Torino con le sue valli a raggiera gli dava un’ampia scelta di mete raggiungibili: studiava l’itinerario sulle cartine del Touring Club Italiano (si trattava dei numeri 8 e 9 della Carta d’Italia del T.C.I.) e si documentava sulle tradizioni dei paesi e delle valli che avrebbero attraversato, cercando anche curiosità divertenti che potessero attirare l’attenzione degli amici durante l’escursione. Le gite continuarono anche in periodo scolastico ma solo al sabato perché la domenica c’era la messa a cui non poteva mancare e che la mamma Teresa poneva al di sopra di qualunque altro impegno.
Anche la mattina di domenica 7 agosto, come sempre, Teresa lo svegliò presto. “Preparati, dobbiamo andare a messa. Svegliati! Stanco? Ma dovevi proprio andare in montagna ieri?”. “Certo che dovevo, ho organizzato io la gita a Usseglio” pensò ma senza replicare.
Dopo la messa si avviarono a passo veloce verso la stazione di Porta Nuova dove papà Feliciano stava terminando il suo turno. Valter era felice quando poteva averli accanto entrambi in qualche anche breve passeggiata nelle eleganti vie del centro. L’appuntamento era all’edicola della stazione. Feliciano arrivò con un bel sorriso passando da una mano all’altra 4 monete da 10 centesimi, quelle di rame col profilo severo di Vittorio Emanuele III, un’effigie in verità appena visibile tanto il metallo era usurato. Quelle monetine servivano per acquistare “La Domenica del Corriere”. La copertina di quel numero era dedicata ai ragazzi della GIL, Gioventù italiana del littorio, di Milano nel corso di un addestramento sull’altipiano di Asiago. Feliciano scambiò due parole con l’edicolante, l’amabile signora Pistoi[16], mamma di Ennio con cui Valter collaborerà poi da partigiano. Solo poche parole perché il lavoro in edicola era continuo, quasi frenetico. Feliciano volse lo sguardo alle altre riviste quasi accompagnando quello oltremodo curioso di Valter rivolto ai giornalini colorati. Improvvisamente Feliciano mutando il sorriso in disappunto chiese alla signora Pistoi “E questa, che cos’è?”; sempre indaffarata gli rispose “È l’ultima trovata! Prima ce l’avevano con i comunisti, ora con gli ebrei. So solo che per colpa di quella rivistuncola ho perso un sacco di clienti oggi”. La “rivistuncola”era il primo numero de La difesa della razza, rivista quindicennale diretta da Telesio Interlandi e che, dal quarto numero (20 settembre 1938), avrà come segretario di redazione un appena ventiquattrenne Giorgio Almirante[17].
La “Razza italiana”. La propaganda contro gli ebrei era in verità già iniziata a metà luglio quando alcuni quotidiani[18] avevano pubblicato il Manifesto della razza con le conclusioni a cui era giunto, scimmiottando le argomentazioni tedesche, un non meglio precisato “consesso di professori universitari italiani”. Vi si enunciava “l’esistenza indiscutibile di una pura razza italiana di origine ariana come la sua civiltà, e dunque diversa da quella degli ebrei, i quali quindi non potevano più ritenersi italiani”. Una enunciazione che evidentemente e volutamente ignorava come l’Italia fosse l’esito, e neppure molto omogeneo, di culture diversissime, come quella fenicia, cartaginese, araba, spagnola, normanna, francese[19].
Si minava, così, alla base una convivenza culturale e religiosa fino ad allora vissuta serenamente, magari con un po’ di freddezza, ma mai con sospetto e odio. Forse fra i clienti dell’edicola c’era anche la famiglia Levi, molto riservata e rispettosa, che abitava nello stesso edificio di via Madama Cristina 77. Da quella domenica neppure un “buongiorno” o un “buonasera”. La famiglia Levi poco dopo lascerà l’alloggio, traslocherà senza salutare nessuno.[20] Il clima di sospetto si diffuse e sulle vetrine di un negozio della Galleria Subalpina comparve la scritta “Il proprietario di questa libreria è cattolico”[21], il negozio era quello tuttora noto come “L’ebreo”. Dal 1° settembre 1942 verrà compilato un dettagliato resoconto mensile del “movimento naturale e migratorio degli ebrei e dei misti non ebrei”[22]; sarà però solo dopo il Congresso di Verona (12 settembre 1943) che i fascisti inizieranno a catturare e deportare gli ebrei impiegando proprie forze di polizia capitanate dall’antisemita convinto Giovanni Preziosi (1881-1945)[23]. Da gennaio 1944 i beni degli ebrei saranno confiscati e avocati allo Stato, anche grazie alla denuncia obbligatoria di chi avesse con loro debiti, crediti o immobili[24]. Iniziò con queste premesse l’anno scolastico 1938/39. Alla radio la musica lasciò il posto a notiziari sempre più allarmanti. Nel volgere di poco tempo lo swing svanirà nel coprifuoco e le melodie delle grandi orchestre di Pippo Barzizza e di Cinico Angelini saranno soppiantate dal cacofonico e agghiacciante frastuono dei bombardieri.
[1] Agostini 1991, p. 11.
[2]Arciciock1990, 187 p.
[3] Bassignana 2014, p. 7.
[4]Arciciock 1990, p. 27-28.
[5]La Chiesa, opera dell’architetto Carlo Ceppi (1829-1921) e dell’Ingegnere Stefano Molli (1858-1917), venne costruita tra il 1890 e il 1898. I bombardamenti aerei del 1942 e del 1943 ne distrussero la cupola, l’altare maggiore e parte degli interni. La ricostruzione, in conformità con il disegno originario, fu condotta tra il 1947 e il 1955.
[6] Il raggio d’azione dell’Azione Cattolica venne fortemente limitato dai Patti Lateranensi, firmati da Mussolini e dal Cardinale Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929 e ribadito con fermezza, due anni dalla chiusura delle sedi dell’Azione Cattolica, colpevole di sottrarre giovani al regime fascista (Massobrio 2002, p. 158).
[7] Anche se sono ancora in molti a chiamarla Società della Gioventù Cattolica, ebbe questa denominazione dalla sua fondazione (Bologna settembre del 1867) fino al 1931, quando prese la denominazione di Gioventù italiana di Azione Cattolica, nota soprattutto con l’acronimo GIAC.
[8]Il 21 agosto 1939 La Stampa diede ampio spazio in prima pagina al colloquio svoltosi il giorno precedente tra il Segretario del PNF e il Presidente dell’Ufficio Centrale dell’ACI e con il quale vennero riconfermati (e nell’articolo sono riportati interamente) gli articoli dell’accordo del 1931 (archiviolastampa.it)
[9] Geuna 1977, p. 81.
[10] Piva 2015, p. 274.
[11] Piva 2015, p. 13.
[12] Paglia 2014, p. 459-460.
[13] Ravasi 2009, p. 217.
[14] Girotti 2017, p. 688.
[15] Frassati 2019, p. 191-193, 202-203.
[16] Pistoi 1997, p. 45.
[17] Baima 2019, p. 24-27. La rivista poteva esser venduta sottocosto perché generosamente foraggiata dal Ministero della cultura popolare, ciononostante era poco letta e diffusa e la maggior parte delle copie finiva al macero Baima 2019, p. 80.
[18] Si veda l’articolo di fondo de La Stampa del 15 luglio 1938.
[19] Pistoi 1997, p. 21-22.
[20] La fuga degli ebrei dalla città avrà un’accelerazione nell’autunno del 1943. Boccalatte 2006, p. 39.
[21] Baima 2019, p. 79 (testimonianza di Bruno Segre).
[22] Baima 2019, p. 158 sgg.
[23] Moorehead 2020, p.127.
[24] Franzinelli 2001, p. 163.