Valter Agostini, “un avventuriero nel mondo” tra pratiche anagrafiche e poesia piemontese.

di Rosanna Roccia

Conservo, scolpito nella memoria, il nome dell’antico collega Valter Agostini, stimato funzionario dell’Anagrafe del Comune di Torino, che tutti, da via Barbaroux a Palazzo civico, apprezzavano per la vasta cultura e anche per la grande disponibilità.

Purtroppo non ho invece che un vago ricordo del suo aspetto fisico: ero infatti molto giovane quando cominciai il mio percorso lavorativo presso i Servizi demografici, ove peraltro rimasi per un periodo piuttosto breve. Affascinata com’ero dalla Storia, aspiravo a un lavoro diverso. Fui accontentata, e fui trasferita all’Archivio Storico della Città, tra documenti plurisecolari che custodivano una memoria lunga 1000 anni. In quel luogo, per me pieno di risorse, ebbi modo di scalare i gradini della carriera trasformando la mia passione in professione. Da tempo faccio parte, con orgoglio, del mondo degli storici.

Dico questo non per parlare di me, ma per dare un significato a quella che si potrebbe definire la ‘doppia vita’ di quei dipendenti comunali che hanno potuto, o saputo, o voluto coniugare in vario modo e fruttuosamente vita di lavoro e interessi culturali.

Valter Agostini, che fu anche (e, mi verrebbe da dire, soprattutto) poeta, appartiene a questa schiera, non folta ma robusta, di dipendenti comunali-intellettuali, ovvero di intellettuali-dipendenti comunali.  

Del resto il Comune di Torino, per limitarmi a una realtà che è stata anche la mia, tra i dipendenti del passato può vantare alcune perle rare, come i direttori dei Musei Civici Vittorio Viale e Luigi Mallè, storici dell’arte di chiara fama, o il grande direttore della Biblioteca civica Luciano Tamburini, letterato finissimo, divenuto poi direttore della rivista “Studi Piemontesi”, il timone della quale è ora affidato alle mie mani.

Agostini, poeta piemontese, appartiene al mondo di coloro che al Piemonte hanno dedicato interesse e passione.

Ma chi era Valter Agostini? Da dove veniva? Qual era il percorso che l’aveva condotto a Torino tra i cultori della poesia piemontese?

Egli stesso si racconta in una lettera – in lingua italiana ‒ diretta al noto poeta Camillo Brero, e da questi riprodotta nella sua Presentazione alla raccolta di poesie Temp d’anciarm (Tempo di fascino, o d’incanto) dello stesso Agostini, pubblicata a Torino nel 1991, nelle Edission “Piemontèis Ancheuj”, numero 3 di “A l’ansegna dij Brandé”.

Valter Agostini era nato a Venezia nel 1922; a 5 anni il papà, ferroviere, fu trasferito  in Piemonte, a Bussoleno, dove la mamma recuperò la salute minata dal clima insano della laguna. Per un po’, e finché le circostanze lo permisero, Valter, a Venezia, tornò ogni anno, ospite di zii piemontesi. Ma non si trattava ogni volta che di un ritorno, un ritorno felice che presupponeva però il rientro nella nuova dimora, più angusta e del tutto differente.

Possiamo immaginare il turbamento di un ragazzo sensibile, sradicato da una città magica, dai paesaggi inconsueti, dai romantici scorci, pervasa dal chiacchiericcio cantilenante dei veneziani (e non ancora invasa dal turismo di massa), piena di bellezze struggenti e di immagini gioiose, ma attraversata anche da malinconie profonde: la città di Thomas Mann e di Lord Byron, e quella del Tempo ritrovato di Proust.

Dopo Bussoleno, Torino.

Il passaggio dalla gloriosa città marinara a Bussoleno, e poi dalla modesta cittadina della Valsusa contornata dalle montagne e dai boschi a Torino, fu un trauma: vissuto e rivissuto. Un trauma che Agostini stigmatizzò brevemente in una massima coniata lì per lì: «Venessia mia sità, Bussolin mè pais». Punto.

Ma, confessò Agostini più tardi: «Ripetendo… ancor oggi [quelle parole] c’è uno struggimento senza consolazione per l’una [Venezia] e per l’altro [Bussoleno]… e per le loro opposte peculiarità».

Era l’anno 1936. L’impatto di Agostini adolescente con Torino, la città in cui avrebbe messo radici, dedicandole studio, lavoro, risorse, non fu felice. Adulto, e già esperto nel dominare la lingua piemontese e trasformare le proprie emozioni in versi, ammise: «non dico di odiare Torino, ma di non sentire nulla per questa città in cui sempre ho dovuto vivere e che sempre avrei voluto lasciare».

Ingiusto, il nostro veneziano-piemontese? Non direi: piuttosto frastornato dai molti accadimenti della vita. Torino, per Agostini, che si definiva «un avventuriero nel mondo», fu un gran palcoscenico che lo obbligò a recitare in molti ruoli.

A Torino Valter Agostini visse i preludi tristi della guerra; a Torino tornò a guerra conclusa dopo l’esperienza partigiana che l’aveva portato tra gli alpeggi sopra Cumiana; a Torino dal 1945 al 1948 fu assistente del matematico Giovanni Zin presso l’Istituto Elettrotecnico Nazionale “Galileo Ferraris”. Intanto riprese gli studi e si laureò alla Facoltà di Magistero. Poi cambiò lavoro, nel 1952 sposò la sua bella Mariuccia e nel 1956 entrò all’Anagrafe di Torino e si specializzò nella fumosa giurisprudenza in materia di cittadinanza, residenza e questioni affini, dispensando ai colleghi, e non solo a loro, il suo sapere. Nel 1967 passò alla direzione didattica del Centro di formazione professionale “Mario Enrico” e poi all’istituto professionale Luigi Lagrange. Nei primi anni Settanta tornò ai Servizi demografici e all’inizio degli anni Ottanta gli fu conferita la direzione dell’Anagrafe centrale, ove sviluppò ulteriori competenze aggiornando il nutrito curriculum di esperto di legislazione in materia anagrafica. Nel 1987 Agostini compì 65 anni, e andò in pensione. Proseguì però l’attività formativa mettendo a disposizione la sua vasta dottrina giuridica e la grande competenza acquisita sul campo. Fu così che nel 1989 ebbe l’opportunità di partecipare come oratore a un convegno sull’autocertificazione a fianco di Paolo Borsellino, il grande magistrato poi vittima della mafia, e di altri esperti.

E la poesia? Beh, quella era la sua seconda vita. Ne ha parlato, con l’autorevolezza del professore e del letterato a sua volta poeta, e apprezzato poeta piemontese, Giovanni Tesio, ricordando le frequentazioni di Agostini, sin dal dopoguerra, al caffè Patria, ove, all’ombra di Pinin Pacòt, si riuniva il Gotha dei poeti piemontesi di cui facevano parte, tra altri, Camillo Brero e Censin Pich, cofondatori del Centro Studi Piemontesi: il tuttora fertile vivace sodalizio nato nel 1969 su impulso di Renzo Gandolfo, grande intellettuale, organizzatore di cultura e pubblicista.

A me non compete analizzare la poesia di Valter Agostini ed esprimere giudizi che non sono in grado di formulare. Posso però dire che nei suoi versi ci sono i sentimenti di un uomo che ha attraversato geografie diverse e varie esperienze di vita, che ha saputo guardare oltre la realtà e sognare. Credo che alle radici della sua poesia ci siano vecchie emozioni e nostalgie, sensazioni nuove e ricordi struggenti, ma anche inconfessate suggestioni nate dall’incontro fuggevole con la varia umanità transitata di giorno in giorno dinanzi agli sportelli dell’Anagrafe di Torino, trovando una mano tesa, competenza e comprensione.

E credo ci sia finanche un pizzico di malinconia dell’Agostini “migrante”, che, obbligato dalla vita a lasciare i luoghi amati, porta in cuore il passato e il presente: la luce e le voci di Venezia, il vento e i boschi di Bussoleno, e infine la patina grigia di Torino. Una Torino non odiata e neppure amata, silenziosa, ma anche ribelle e ruvida: trasformata oggi, nonostante le sue contraddizioni, in una città accogliente e aperta, piena di vita e di colore. Una Torino che Valter Agostini, poeta, forse non riconoscerebbe più, ma che, credo, potrebbe amare un po’ di più.          

30 giugno 2022