Per ripercorrere il periodo della sua Resistenza ci appoggeremo sulle tre dichiarazioni firmate dai suoi comandanti che nel 1947 Valter presentò alla Commissione regionale Piemontese per l’accertamento delle qualifiche partigiane
Doc. A: relativo al periodo febbraio-giugno 1944, datato 27 giugno 1947
Doc. B: relativo al periodo luglio-settembre 1944, datato 2 luglio 1947
Doc. C: relativo al periodo ottobre 1844-aprile 1945, datato 24 luglio 1947
nonché sulla sua scheda della “Banca dati del partigianato piemontese” dell’ISTORETO
Doc. A (febbraio-giugno 1944, datato 27 giugno 1947)
Premessa: Il sottoscritto Gariglio Carlo, comandante della «Banda Bau» (poi «Giorgio Catti») dichiara che il sig. Agostini Valter, di Feliciano, ha fatto parte della banda «Carlo Bau» dal febbraio 1944 al giugno 1944, banda operante fino alla metà di marzo nella zona di Cumiana (con sede alla Ravera) e dal marzo nella zona di Dubbione (con sede sopra al Gran Dubbione). Il sopraddetto Agostini Valter ha esercitato nel sopraddetto periodo mansioni di comandante di distaccamento prima e di vice-comandante della banda poi.
Arrivati a Cumiana, Valter e Carlo sollevarono il bavero del cappotto affinché fosse visibile il contrassegno convenzionale che vi avevano cucito e, quando un ragazzo con i pantaloni alla zuava e gli scarponi li avvicinò, pronunciarono entrambi la parola d’ordine loro assegnata e con lui si misero in cammino[1]. Fu solo silenzio per l’ora e mezza che durò il percorso fino all’alpeggio tra strette sterrate e ripidi sentieri illuminati da due terzi di luna crescente. Era un febbraio relativamente mite. Le temperature si sarebbero abbassate bruscamente solo dal giorno successivo. I tenui colori dell’inverno si miscelavano, sfumando i contorni nelle ombre del bosco. Valter inspirò profondamente e quell’aria di montagna gli parve già familiare. Come un cavallo a cui siano state allentate le briglie, il suo pensiero tornò alla sua Valle e alla voce di quel vecchio sdentato che si attardava a raccontargli le avventure, avvincenti ed emozionanti, di un frate non frate che era salito in montagna per sfuggire alla violenza del potere. La mamma proprio non sopportava quel trasandato, indolente, dalla barba incolta e dall’incedere goffo che esaltava le imprese di Fra Dolcino e in quelle occasioni richiamava energicamente Valter. Anche se un po’ appannato era uno dei suoi ricordi più teneri e ne scaturì un sorriso mentre agile seguiva da vicino il passo sicuro della guida lungo il ripido sentiero.
Raggiunta la frazione Ravera, vide sopraggiungere altri gruppetti di giovani, alcuni vestiti da città, con pesanti cappotti di lana e una valigia al posto dello zaino. La maggior parte veniva da Torino, erano giovani impauriti e infreddoliti. All’Alpe del Capitano la comunità appariva ben organizzata anche se molto variegata e lontana dai rigidi schemi militari a cui Valter era stato abituato durante il corso allievi ufficiali. Tra le baite si aggiravano ragazzi mal vestiti, un po’ denutriti, male o per nulla armati, che, con un fare fiero e orgoglioso, vigilavano sui nuovi arrivati. Erano ragazzi del luogo, visibilmente temprati alla fatica, che erano saliti in montagna per difendere la propria terra, gli alpeggi, le coltivazioni, i laboratori; quelli erano stati da sempre i luoghi della loro vita, la loro patria.
In clandestinità la prudenza consigliava l’adozione di soprannomi, Valter scelse Walter, Carlo Ibolino più tardi si fece chiamare Licio.
Il 20 febbraio[2] arrivò anche il diciottenne Giuseppe Costamagna, che, sofferente ai polmoni, fu ricoverato in ospedale[3]. Costamagna adottò in clandestinità i soprannomi di Pic, Rossi, Giulio, Pic.
La Banda di Silvio Geuna. Ad organizzare il gruppo sopra Cumiana, all’indomani dell’armistizio, era stato Silvio Geuna con il sostegno dell’amico fedele Pino Casadei, commerciante in granaglie[4]. Geuna aveva studiato dai Gesuiti e a Torino era diventato uno dei maggiori esponenti dell’ambiente cattolico. Valdo Fusi (1911-1975) così ricorderà il primo incontro con Geuna: «In via Garibaldi mi imbatto in un giovane con barba e baffi neri, piccolino, vispo, occhi che bucano, atletico. È un tenente degli alpini. Si chiama Silvio Geuna. È l’uomo che cerco perché prenda il mio posto al Comitato militare. Non gli ho mai parlato prima di quel mattino. Ma l’avevo inteso parlare in una lontana manifestazione della Gioventù cattolica. Mi aveva lasciato un’impressione enorme. Un’anima rara, un cavaliere senza macchia e senza paura, una verve caustica e sottile. Che cosa so di lui? Andrea Guglielminetti [l’avvocato che aveva chiesto a V. Fusi di entrare nel C.N.L.] che cosa sapeva di me? Accetta?” Geuna gli rispose “Scene da Sacra Scrittura, non è che Nostro Signore avesse granché da scegliere; arruolò apostoli chi aveva sottomano. Così ha fatto Guglielminetti con te, e tu fai con me.”»[5]
Gli abitanti di Cumiana denominavano il gruppo Banda dell’Azione Cattolica o semplicemente Banda Cattolica. Vi avevano aderito, per primi, giovani dell’Azione Cattolica (che non intendevano presentarsi ai bandi della Repubblica Sociale[6]), come Piero Catti[7], alpini sbandati, ragazzi di leva dei paesi limitrofi e anche alcuni civili cumianesi. La sede della formazione era su un pianoro situato a nord-ovest della frazione Ravera di Cumiana chiamato l’“Alpe del Capitano”[8] ad un’altitudine di circa 1000 metri[9], una posizione dalla quale in caso di necessità era possibile, attraverso il colle del Besso, raggiungere il Gran Dubbione, in Val Chisone sopra Pinasca.
Senza quei rifugi nelle borgate di Cumiana molti giovani avrebbero finito per vagabondare nelle valli e diventare facile preda dei nazifascisti. Fortunatamente i fratelli Piero e Giorgio Catti e lo stesso Geuna conoscevano bene gli alpeggi, le baite e i sentieri di Cumiana: vi erano quasi di casa, da quando le loro famiglie vi andavano da villeggianti, prima, e da sfollate, poi. Avendo poche armi e pochi che ne conoscevano il funzionamento Geuna adottava l’unica strategia possibile, quella dell’attesa e della prudenza.
I giovani all’Alpe del Capitano, diversi sia per estrazione sociale, sia per preparazione militare, avevano motivazioni e aspettative altrettanto differenti. Molti avevano paura, ma solo alcuni erano pronti a combatterla. La maggior parte cercava solo un luogo sicuro per sfuggire ai bandi di arruolamento ed era convita di averlo raggiunto in attesa della fine della guerra che pareva imminente.
Geuna nel suo diario dal carcere penserà spesso a loro usando l’affettuoso appellativo “i miei ragazzi” cosciente forse che non potesse essere chiamato “banda” un gruppo così eterogeneo e numeroso, era composto di 180 persone. Chi, come Valter, aveva già una preparazione militare e chi, come Piero Catti, non l’aveva ma era pronto alla lotta costituirono, più o meno spontaneamente, gruppi più operativi pronti alla difesa del luogo e, se necessario, all’azione.
Su tali gruppi più operativi ci possono dare qualche informazione utile le schede della banca dati del Partigianato piemontese dell’ISTORETO (redatte sulla base delle dichiarazioni presentate al termine della guerra dagli stessi partigiani alla Commissione Regionale Piemontese per il riconoscimento della qualifica di Partigiano e da questa scrupolosamente vagliate). Nella banca dati compare la formazione “Banda Geuna” (o come “Banda Geuna DC”) nelle schede di 19 partigiani riconosciuti (e uno non riconosciuto) dei quali solo 8 erano ex militari. L’appellativo “Banda Carlo Bau”, che trae il nome dal suo comandante Felice Gariglio (soprannome Carlo) ricorre in sole tre schede dell’ISTORETO. Si tratta della banda nominata nella dichiarazione di Valter, ma che non trova riscontro nella scheda dell’ISTORETO di Valter che invece riporta “Brigata Val Chisone”; assimilazione plausibile in quanto l’operatività della o delle bande all’Alpe del Capitano si svolgeva nell’ambito della Formazione autonoma della Val Chisone al comando di Maggiorino Marcellin[10] (nome di battaglia Bluter). “Banda Geuna” e “Banda Carlo Bau”, paiono comunque, per diversi motivi, appellativi di un’unica formazione. È lo stesso Geuna, infatti, a ricordare nel suo diario che, quando alla fine del 1943[11] fu chiamato a far parte del Comando Militare in rappresentanza della Democrazia Cristiana, non potendo più seguire da vicino la sua banda ne affidò il comando, prima, a Felice Gariglio[12], poi a Felice Cordero di Pamparato[13] (soprannome Campana), venticinquenne ufficiale di artiglieria, al quale Geuna affidò soprattutto l’addestramento alle armi.
Prima della fine di marzo 1944 la banda lasciò le baite di Cumiana per trasferirsi in Val Chisone dove si unì alla “Banda del Gran Dubbione” (23 partigiani attestati nelle schede dell’ISTORETO), comandata da Gino Baracco[14]. Fino al suo arresto Geuna continuò, quando poteva, a raggiungere i suoi ragazzi, come li chiamava nel suo diario[15], e lo fece anche quando la banda si trasferì al Gran Dubbione. Nel suo diario ricorderà quando con Gino Baracco portò la corrispondenza dei partigiani a Torino; camminò nella neve dal Gran Dubbione a Giaveno, per evitare di passare da Cumiana dove era ricercato, e da qui a Torino in bicicletta occultando la corrispondenza sotto la giacca tra fogli di giornale, come si usava fare allora per proteggersi dal vento[16].
Anche considerando le diverse designazioni della banda, il numero dei suoi componenti risulta comunque di molto inferiore rispetto ai 180 a cui fa riferimento lo stesso Geuna[17]. Evidentemente questo numero comprendeva anche i giovani che nella banda cercavano solo rifugio e protezione. La gran parte dei componenti rimase sempre disarmata e con poca o nessuna dimestichezza con le armi. Non vi era, e pareva neppure necessaria, un’organizzazione militare più rigida perché era ampiamente diffusa la convinzione che la guerra sarebbe finita molto presto e che, nell’attesa, fosse sufficiente tenere quei giovani (spesso troppo giovani per essere prudenti) lontani dai paesi e dalle campagne dove costantemente vi era il pericolo di essere arrestati come disertori.
Di giorno gli abitanti delle frazioni facevano visita alla comunità di Geuna, alcuni portavano generi di conforto e cibo indispensabili per sopravvivere in quell’inverno che si stava facendo particolarmente rigido e che i giovani partigiani erano costretti a passare accampati nelle baite dormendo su paglia e fieno[18]. La comune appartenenza ad ambienti cattolici e la militanza di alcuni nell’Azione Cattolica, favorivano l’amicizia e la solidarietà. I “figli del Ventennio” che non avevano mai osato parlare del regime e soffiare sul “fumo della retorica” come lo definirà Norberto Bobbio[19] ora prendevano coscienza della libertà di espressione, forse un semplice vagito che pareva comunque crescere quotidianamente. La sera si ritrovavano a parlare liberamente come mai avevano osato fare. Con Giorgio Catti Valter parlava dell’attività della GIAC, con Mario Costa[20] s’attardava a parlare del suo amore per la letteratura e per le poesie del padre Nino. Tutti parlavano con amarezza di chi aveva fatto scelte differenti, in particolare dei giovani cattolici che avevano preferito andare a lavorare per l’Organizzazione Todt o si erano nascosti in qualche convento compiacente[21] o, peggio ancora, stavano dall’altra parte, con i repubblichini[22] accettando di buon grado di essere comandati da ufficiali tedeschi.
L’addestramento alle armi era stato affidato all’ufficiale marchese Felice Cordero di Pamparato (soprannome “Comandante Campana” o più semplicemente “Campana”)[23] ma l’addestramento non poteva essere frequente ed esteso a tutti perché le armi erano pochissime e quelle poche erano usate soprattutto dalle sentinelle che sorvegliavano le vie d’accesso alle borgate da postazioni site sia nel bosco sia tra le rocce[24]. La maggior parte dei giovani, giunta alle baite quasi unicamente per sfuggire ai bandi di reclutamento, rimase non solo priva di armi ma neppure addestrata nel loro uso, comunque lontana dall’azione e piuttosto sedentaria. Comportamenti che in varie occasioni il CLN suggeriva di evitare perché assai pericolosi. I giovani più coraggiosi e arditi sognavano invece di passare all’azione e combattere per difendere la patria dall’occupazione nazifascista. Tra di essi si era diffusa l’eco delle rapide incursioni di Marcellin volte a sottrarre armi ai nemici. Uno dei primi a lasciare la banda Geuna per passare in Val Chisone fu Gianni Daghero (amico d’infanzia di Giorgio Catti), che per la velocità dei suoi spostamenti, la sua conoscenza del territorio e la sua astuzia sarà soprannominato “Lupo”[25].
Cumiana diventò in quel periodo anche un passaggio privilegiato per raggiungere la Val Chisone attraverso il Colle del Besso, evitando di passare da Pinerolo dove già all’inizio del 1944 – e soprattutto dalla fine di febbraio – i tedeschi avevano consolidato il proprio controllo territoriale, allestendo un centro di SS italiane e incaricando queste ultime di presidiare i centri urbani e far pressione sui civili per dissuaderli dall’appoggio ai partigiani[26]. La strategia del terrore era chiara: una popolazione impaurita non avrebbe aiutato le bande e, senza il sostegno della popolazione, per le bande la vita in montagna sarebbe diventata impossibile.[27]
Una popolazione di giovani così numerosa in baite abbandonate non poteva certo passare inosservata, anche perché alla sera i giovani scendevano in paese per accogliere i nuovi arrivati o per acquistare cibo e indumenti. Questi movimenti finirono per destare sospetti negli ambienti fascisti di Cumiana già da novembre 1943[28] . Dai sospetti alla delazione il passo era breve e le informazioni che giunsero ai tedeschi furono evidentemente molto precise[29] se il 26 febbraio[30] arrivò a Cumiana una ventina di SS che prima si recò alla casa dove era sfollata la famiglia Geuna e un’ora dopo si presentò anche a casa Catti. L’una e l’altra casa vennero invano perquisite terrorizzando le due famiglie. Geuna sfuggì miracolosamente alla cattura[31], ma ricevette comunque l’ordine perentorio di presentarsi il giorno dopo all’albergo Nazionale a Torino (sede della Gestapo[32]). Geuna non si presentò[33] e il C.L.N. provvide a trovargli un nascondiglio sicuro finché le acque non si fossero calmate[34].
Arrivano altre bande. Intanto la costellazione delle bande sopra Cumiana in quel mese di febbraio si era arricchita di nuovi gruppi organizzati[35]. Dalla Val Sangone giunse la banda “Nino e Carlo” di Nino Criscuolo e Carlo Asteggiano che si insediò alla Moncalarda (sulla strada per la Ravera)[36]. Sempre sopra Cumiana, alla Verna, si insediò un’altra banda, quella di Sergio De Vitis, a cui appartenevano giovani provenienti da Grugliasco, Orbassano e Nichelino[37]. Entrambe le bande, composte prevalentemente da giovani cattolici[38] si presentarono subito molto attive, intraprendenti e ben armate. I cumianesi, abituati alla discreta presenza dei partigiani di Geuna, davanti a queste nuove bande agguerrite cominciarono a temere ritorsioni e rappresaglie[39].
Il giorno successivo alla perquisizione delle SS un centinaio di partigiani bloccò le strade di Cumiana per un’ora e mezza spianando mitragliatrici, moschetti, pistole e bombe a mano. Non è dato sapere quale banda fosse perché di questo fatto riferisce solo un notiziario della GNR[40], ma a giudicare dall’armamento non erano certo la “Banda Geuna”. Fu forse un’azione dimostrativa della banda “Nino e Carlo” o della “De Vitis”, un avvertimento diretto a delatori ed eventuali informatori.
Il 1° marzo venne indetto dai comitati segreti del Partito Comunista lo “Sciopero generale contro la fame e contro il terrore”[41]. Il CNL, che continuava a guadagnare consenso anche presso gli operai delle fabbriche, lo appoggiò sollecitando le bande partigiane a bloccare le partenze delle corriere e dei treni che portavano gli operai alle fabbriche di Torino[42]; a Cumiana questo incarico venne svolto principalmente dalle bande “Nino e Carlo” e “De Vitis” che avevano assunto uno stabile controllo del territorio occupandosi anche di giustizia e ordine pubblico e, di fatto, esautorando dai propri poteri il podestà e il vice podestà. Nei giorni successivi, 245 operai della Fiat, rei di aver scioperato, furono arrestati dai tedeschi e deportati a Mauthausen[43].
Nella “Banda Geuna” non mancavano critiche all’eccessivo spirito difensivo e attendista mantenuto fino a quel momento. Alcuni desideravano essere più operativi, convinti che i principi cattolici, distintivi del gruppo, non potessero escludere a priori una reazione armata e anche un’azione offensiva[44]. E anche Valter giunse alla convinzione che, se azioni sconsiderate potevano causare rappresaglie, la non azione e l’immobilismo potevano rivelarsi ancora più deleteri. Convinto di ciò era soprattutto Giorgio Catti che affermava con risolutezza la necessità di difendere la patria dal nemico “senza però mai odiarlo”, un asserto etico che rimandava al brano evangelico “Chi odia suo fratello è un omicida”[45] . Su questo punto aveva le idee molto chiare quando affermava “Se non paghiamo oggi saremo senza credito domani. Il Vangelo è tutto qui: essere giusti, con sé e con gli altri. Ma esserlo sempre e non solo quando costa poco, perché Libera nos a malo non significa tagliare la corda nei momenti della prova”[46].
La preparazione dei giovani cattolici ad accettare e impegnarsi attivamente in guerra aveva i suoi fondamenti nell’educazione morale cattolica del tempo, tutta imperniata sulla valorizzazione della purezza, l’unica che potesse guidare, anche con sacrificio, il cammino del giovane verso l’età adulta. Il “giovane cristiano” doveva esser pronto a difendere i propri principi dai nemici, che in tempo di pace erano essenzialmente i socialisti e i comunisti anticlericali, e a distinguersi in guerra per difendere la patria superando il timore di uccidere o farsi uccidere[47]. La formula “Uccidere senza odiare” aveva il sapore amaro del compromesso tra l’amore per il prossimo e la violenza estrema contro il nemico in un mondo, come quello della prima metà del ’900, che pareva non riuscire a far a meno della guerra; una formula, questa, che aiutava i giovani non solo ad accettare il sacrificio con disciplina e abbandono in Dio, ma anche a non temere di infliggere terrore e morte al nemico[48]. Una lotta portata anche alle estreme conseguenze in un completo abbandono alla volontà di Dio, come quella di Giorgio Catti che già in un appunto della primavera del 1943 scriveva “Signore, fa solo che io diventi santo e poi fa di me tutto quello che vuoi”[49].
Molti giovani della Banda, animati com’erano da una morale eroica e da spirito di sacrificio, pur se non sorretti da un’adeguata preparazione militare, sopportavano a fatica l’attendismo a cui erano stati abituati, una prudenza che neppure a Geuna, d’altronde, era servita per evitare delazioni e perquisizioni. Ai partigiani non mancavano gli obiettivi per le incursioni (caserme della milizia, stazioni di polizia, pali della luce o i binari ferroviari), né il coraggio dei vent’anni per affrontare a viso aperto la battaglia.
Doc. A1: Prese parte all’attacco a None svoltosi ai primi di marzo con azione di guerra che provocò al gruppo attaccante perdite in morti, feriti e prigionieri.
Una delle azioni più ricorrenti delle bande era l’incursione ai magazzini tedeschi del fondovalle per prelevare, si riteneva con una certa facilità, viveri, indumenti e soprattutto moschetti, munizioni, maschere antigas, bombe, detonatori, lacrimogeni. Le frequenti azioni di assalto servivano anche a dare ai nazifascisti l’impressione che scendessero dalle montagne molti più partigiani di quanti ve ne fossero realmente. Il 7 marzo i partigiani riuscirono addirittura a impossessarsi di un intero vagone ferroviario con 132 mortai[50].
Non lontano da Cumiana, a None, vi era un magazzino delle Officine dell’Organizzazione Todt[51], una delle creature germaniche più odiate: vi lavorano coatti, pressoché in schiavitù, molti italiani impegnati nella costruzione e nella manutenzione di linee difensive, strade, ferrovie, opere indispensabili ai tedeschi per controllare militarmente il territorio. A None ogni giorno arrivavano e ripartivano camion colmi di vario materiale.
Potendo contare anche sull’aiuto di altre bande di Cumiana, il magazzino di None poteva essere un obiettivo alla portata dei giovani più audaci della banda Geuna? Certamente sì, perché avrebbe tolto ai tedeschi, almeno per un po’ di tempo, la possibilità di intervenire e ricostruire prontamente le strutture danneggiate dalle incursioni della banda guastatori[52].
Furono inviati informatori in loco, che riportarono notizie confortanti. C’era, sì, un presidio tedesco, ma il controllo militare era affidato alla Guardia Nazionale repubblicana, composta da anziani fascisti spesso irritati di esser finiti il comando nazista a difendere strutture militari tedesche. Anche se ai giovani interessati all’azione non difettava l’ardimento e il coraggio, venne intensificato l’addestramento alle armi, sotto la guida di Felice Cordero di Pamparato.
Dopo aver studiato sulla carta il piano d’attacco e ricevute le armi, i giovani si sentirono pronti all’incursione. La sera dell’8 marzo, quando le otto già battevano roche al campanile di San Giovanni Battista, una trentina di partigiani partì alla volta di None su un pullman (probabilmente un torpedone) seguito da un sidecar[53].
Solo la metà dei partecipanti all’incursione aveva vestito l’uniforme grigio-verde, ma in numero ancor minore erano quelli che avevano conosciuto realmente i campi di battaglia, i rimanenti erano studenti, operai e commercianti. Chi aveva una qualche familiarità con le armi avrebbe dunque coperto chi aveva l’incarico di prelevare qualche mezzo dall’autoparco e materiali vari dal magazzino.
Il torpedone superò Volvera e, percorrendo le attuali SP141 e via Aldo Moro, arrivò verso le 21 a None fermandosi al riparo sotto il cavalcavia dell’attuale SP23R . Le officine dell’Organizzazione Todt erano davanti a loro nell’ex fabbrica Liquori Anselmo requisita a suo tempo dai tedeschi, tra via Molino e i binari della ferrovia[54]. I partigiani scesero a terra, immobilizzarono una sentinella della GNR accanto ai binari e iniziarono ad avanzare divisi in piccoli gruppi. Il piano d’attacco prevedeva innanzitutto il taglio dei fili telefonici: se ne occupò Carlo But che si arrampicò sul palo con una fune uscendo però allo scoperto. Immediata e inattesa fu la reazione del nemico. Fu l’inferno: i partigiani vennero presi di mira da una mitragliatrice posta sul balcone della casa (ancora esistente) di fianco alla stazione. A scaricare su di loro decine e decine di pallottole traccianti (quelle solitamente usate nelle azioni difensive notturne) era il tenente Kronix[55] appostato dietro una lamiera (piazzata sul balcone evidentemente in attesa dell’attacco). Mario Costa balzò su un camion e tentò invano di metterlo in moto. Il fuoco nemico era talmente intenso che pareva arrivare anche da altre postazioni. La sorpresa, fondamentale per il successo dell’incursione, svanì e i partigiani si trovano alla mercé delle pallottole nemiche. Luigi Toscano, appena imbracciato il mitragliatore, venne colpito alle mani. Claudio Turinetto iniziò a sparare verso il nemico per coprire i fratelli Grosso che stavano portando Toscano sul sidecar. Davanti a loro un tedesco sparava all’impazzata. I partigiani se ne liberarono lanciandogli contro bombe Balilla (ce ne vollero parecchie perché le Balilla erano note per essere solo molto rumorose) e si diedero alla fuga, cercando di allontanarsi velocemente dal campo di battaglia. Alcuni tentarono di raggiungere i binari ma due di loro, Carlo Camosso e Angelo Cresti, caddero sotto le mitragliate e morirono sul colpo. Invano i compagni cercarono di recuperare i corpi inermi. Reviglio e Sisto riuscirono invece a recuperare Alfredo Serra, colpito da diverse pallottole all’addome, e a trasportarlo sul torpedone, che ripartì subito, senza attendere oltre. Molti partigiani furono costretti a tornare a piedi all’Alpe il mattino successivo. Due giovani caddero nelle mani del nemico e furono deportati a Mauthausen[56]. Tra i feriti il più grave era Alfredo Serra, che morirà in ospedale qualche giorno dopo. Luciano Stornello gravemente ferito a un polmone se la caverà e, pur mutilato, proseguirà la lotta fino ai giorni della Liberazione[57]. I tedeschi non spostarono i cadaveri dei due caduti; li lasciarono riversi, ben visibili sui binari affinché potessero terrorizzare il mattino seguente operai e studenti in attesa del treno e fossero un monito per tutti[58].
Il tragico epilogo di None mise in evidenza tutta l’inesperienza dei giovani partigiani. La sorpresa era svanita perché gli informatori inviati a None con le loro domande inconsuete avevano probabilmente insospettito qualche delatore al soldo dei tedeschi[59]. Quello dei delatori rimase sempre il più grande e subdolo dei pericoli perché, nonostante la stragrande maggioranza della popolazione sostenesse i partigiani, rimaneva sempre una minoranza pronta a riferire al nemico il benché minimo sospetto. A giudicare dalla rapidità dell’azione difensiva, si può immaginare che i tedeschi ebbero, dell’incursione, informazioni abbastanza circostanziate. Come era già successo a Cumiana, anche a None le spie non potevano che essere persone del posto, e per questo motivo difficili da individuare[60]. La delazione diventava un obbligo per i proprietari di locali pubblici, come le osterie, dove gli avventori, bicchiere dopo bicchiere, facilmente potevano lasciarsi sfuggire espressioni antifasciste o informazioni sui ribelli locali[61]. Pur se più raramente che in città, anche nelle cittadine, come None, potevano poi crearsi contiguità tra occupanti e occupati, vuoi per ragioni economiche e di opportunità, vuoi, come successe tra il tenente Kronix e una ragazza che abitava a pochi metri dalla stazione, per motivi sentimentali. Al di là delle narrazioni delegittimanti delle “amanti del tedesco”, la relazione con l’invasore diventava talvolta l’unico modo di procurarsi per sé e la propria famiglia un qualche sostentamento nei lunghi difficili mesi di guerra, mesi di indigenza e di fame[62].
L’incursione di None rappresentò il punto di svolta, il passaggio dall’illusione di una guerra quasi terminata, a una realtà totalmente differente e oltremodo drammatica: una vera e propria guerra, dove la vita era a repentaglio ogni momento, dove per salvare la pelle propria e dei propri compagni era necessario essere accorti e agguerriti almeno quanto il nemico.
L’occupazione nazista si era tradotta fin da subito in un pianificato regime del terrore: i diversi proclami di Kesselring parlavano chiaro fin dal 21 settembre 1943. Era prevista la pena di morte per chiunque non denunciasse persone ostili alle forze armate tedesche o l’occultamento di armi in casa o in altri nascondigli. E la stessa punizione capitale era comminata anche a chi, sottoposto al comando tedesco (avvertimento diretto in primis alla Guardia nazionale repubblicana), non eseguiva gli ordini o li eseguiva male. Per i tedeschi gli italiani non erano nient’altro che traditori e l’Italia tutta nient’altro che un territorio da occupare e controllare con la forza[63], con deportazioni ed eccidi di massa. Ad accrescere le forze tedesche giunse ben presto anche la Waffen Miliz, unità combattente della Legione Italiana delle SS, composta da giovani che si erano arruolati per combattere contro gli angloamericani, avevano giurato fedeltà a Hitler ed erano stati addestrati in Germania secondo un preciso programma elaborato da Himmler fin dal 2 ottobre. I tredici battaglioni di SS italiane non vennero però inviati al fronte contro gli angloamericani, perché, nonostante l’addestramento e il giuramento, il comando tedesco non si fidava di loro. Per saggiarne la fedeltà, vennero invece impiegati proprio contro i partigiani nelle regioni in cui più diffusa era la resistenza, e dunque soprattutto in Piemonte, creando, con cinico disegno, i presupposti di una sanguinosa guerra fratricida.
Doc. A2: Subì i rastrellamenti di Cumiana del marzo e del Gran Dubbione e della Vallata del Chisone del maggio e giugno.
In Val Chisone in particolare, l’acquartieramento delle SS italiane iniziò il 29 febbraio a Pinerolo[64] e proseguì in altri centri nevralgici. Il contingente tedesco giunse a Cumiana proprio l’8 marzo e si insediò con 500 SS italiane e un centinaio di tedeschi presso le Cascine Nuove, interrompendo il regolare anno scolastico della scuola di agraria[65]. Per i partigiani di Geuna le baite di Cumiana non erano più un luogo sicuro.
Già nel pomeriggio dell’8 marzo iniziarono gli atti intimidatori e le ispezioni delle SS in cerca di partigiani e di civili con essi collusi. Spararono su un civile che aveva avuto l’unica colpa di essersi dato alla fuga impaurito. Le ispezioni proseguirono per tutto il mese allo scopo di intimidire i cumianesi e creare il vuoto intorno ai partigiani. Alle Cascine Nuove erano al corrente della presenza dei partigiani e ritenevano che fossero soprattutto comunisti, “garibaldini”[66]. Non era del tutto vero ma evidentemente gli informatori non consideravano la banda cattolica di Geuna così degna di delazione e l’avevano voluta intenzionalmente accomunare ai comunisti per far risaltare maggiormente l’informazione agli occhi dei nazifascisti. I rastrellamenti di cui si parla in Doc. A2 si riferiscono alle continue ispezioni tedesche volte ad assumere con la forza il controllo del territorio, che fino a quel momento era stato saldamente nelle mani dei partigiani.
Geuna si rese conto che il suo progetto, quello di creare sopra Cumiana un luogo sicuro e difendibile, non poteva più proseguire. L’inverno 1943-44 fu particolarmente rigido: alcuni, meno resistenti alle fatiche o che avevano raggiunto l’Alpe del Capitano[67] solo per scampare al reclutamento della RSI o alla deportazione in Germania, presero atto che la situazione stava mutando pericolosamente e decisero di tornare a casa; la maggior parte rimase comunque a Cumiana in attesa di un trasferimento in luogo più sicuro. Forse per organizzare questo trasferimento vi fu il 14 marzo un incontro di partigiani in casa delle sorelle Daghero al quale partecipò anche il nipote Gianni Daghero “Lupo”, come si legge in una nota molto particolareggiata dell’UPI[68]. Nei giorni successivi la banda fu trasferita al Gran Dubbione, come sarà confermato anche nella relazione del parroco locale, Don Giovanni Bessone[69]. Il trasferimento fu graduale e durò probabilmente diversi giorni perché la neve era ancora alta e i giovani, spesso poco attrezzati, erano particolarmente numerosi, ma si concluse certamente prima dell’arresto di Geuna del 31 marzo perché è lui stesso a ricordare di aver condotto personalmente la Banda oltre la catena dei Tre Denti nelle baite del Gran Dubbione[70]. L’itinerario fu approssimativamente quello segnato nella cartina. Qui la Banda Geuna si aggregò alla banda Gran Dubbione comandata da Gino Baracco[71], un giovane della GIAC[72], classe 1915 che nel gennaio 1944 rappresentava il partito democratico nel Comitato delle formazioni di Torino (Comitato che diventerà da luglio 1944 il CMC, Comitato militare Cittadino – poi Comando Piazza- nell’ambito del CRMP – Comando Regionale Militare Piemontese).
Mentre veniva portato a termine il trasferimento, una serie di fatti drammatici condussero all’inizio di aprile a un cruento eccidio a Cumiana. Tanto forti e profondi furono nel paese il dolore e lo smarrimento che per molto tempo la comunità cumianese rifiutò di ospitare i partigiani nei suoi alpeggi; una ferma risposta negativa riceverà lo stesso Marcellin che a inizio di maggio chiederà di insediarvi una base operativa[73].
La figura intorno alla quale ruotava la Resistenza al Gran Dubbione, fin dai giorni successivi all’8 settembre, era quella di Don Bessone, parroco di Serremoretto. Quando, alla fine della guerra, nel settembre 1945 il cardinale Fossati illustrerà nella rivista diocesana[74] l’opportunità, promossa dall’Azione Cattolica, di raccogliere le informazioni sull’azione della Chiesa a favore della Resistenza, Don Bessone, seguendo la traccia suggerita dal Cardinale[75], risponderà l’11 novembre con una relazione dettagliata, trascritta poi da G. Ponsat[76].
Il nuovo insediamento del gruppo di Geuna aveva una posizione strategica: i gruppi più operativi, potevano intervenire con maggiore tempestività in Val Chisone al fianco della Divisione Autonoma di Marcellin, che proprio in quei giorni, il 26 marzo, fu vittima dell’attacco tedesco al Bourcet e fu costretta a raggiungere, dopo due giorni di marce forzate nella neve alta, la Val Troncea.
Gli arresti del 31 marzo e l’eccidio del Martinetto[77] non frenarono l’azione partigiana ma la fecero evolvere: come auspicato da una delle sue vittime più illustri, il Generale Perotti, si richiese alle bande di dotarsi di una struttura più gerarchica e solida. Ebbe inizio un processo di unificazione e organizzazione delle bande anche attraverso nuove denominazioni. Negli elenchi ufficiali delle formazioni piemontesi la Banda Geuna comparirà come 1^ Brigata SAP DC appartenente al Comando Piazza di Torino[78].
Senza la guida di Geuna crebbe il dissenso sul troppo marcato attendismo della banda. Ad alcuni giovani Geuna aveva già dato il proprio consenso a lasciare la banda[79]: erano Mario Costa, Tito Dumontel, Giuseppe Reviglio, Giorgio e Rodolfo Sacco ed Ettore Sisto[80] . Dopo alcune peripezie i sei “secessionisti”, come poi furono chiamati, entrarono nell’orbita di Gianni Daghero, “Lupo”[81], al quale Marcellin aveva affidato anche il compito “di riunire e trasformare in partigiani” i giovani, soprattutto se sbandati, non solo della Val Chisone ma anche della Val Germanasca e dell’alta Val Susa.
Nonostante la “secessione”, permanevano nella banda screzi e discussioni. Il motivo nasceva sempre, come a Cumiana, da una diversa interpretazione della lotta partigiana; da una parte coloro che, coscienti di non aver un’adeguata preparazione militare, preferivano l’attendismo e la prudenza, dall’altra parte quelli che desideravano contribuire alla lotta con le armi in pugno. Stando alla narrazione di Don Bessone i primi riuscirono a inserirsi bene nella piccola comunità montana del Gran Dubbione[82]: partecipavano alle messe, si procuravano il poco cibo disponibile pagando il giusto. I secondi, invece, con il loro dissenso rischiavano di compromettere i buoni rapporti con la popolazione locale.
Per placare gli animi, su richiesta del parroco, intervenne anche Marcellin che ribadì la sua fiducia nella banda e per assicurare che al momento opportuno anche i giovani di Geuna avrebbero contribuito alla Liberazione[83]. All’inizio di maggio la situazione si calmò anche grazie a un’altra figura che, come testimoniato dal parroco Don Bessone[84], emerse autorevole alla guida della banda, quella del tenente Piero Bossotto (soprannome “Tenente Franco”, classe 1919), che ricopriva da qualche tempo un posto di rilievo[85].
Valter venne nominato vicecomandante e incaricato di redigere il diario, probabilmente dell’intero gruppo al Gran Dubbione. In esso con diligenza e accuratezza Valter annotava gli incarichi e i compensi, le defezioni e i nuovi arrivi, le bande presenti sul territorio, gli incontri e le decisioni prese durante le riunioni, le vettovaglie necessarie, e ogni altro dato o accadimento, nonché informazioni sul rapporto con la popolazione locale. Il diario non aveva scopi narrativi, dei partigiani vi comparivano i soli soprannomi. Quando opportuno annotava i pasti e gli altri aiuti ricevuti dal parroco che, come già detto, aveva un ruolo centrale nella vita dei partigiani. La Banda si occupava di controllare il territorio e talvolta era chiamata ad azioni più operative nell’ambito della Div. Autonoma Val Chisone per recuperare ogni sorta di materiale utile, ma nel controllo del territorio altre bande locali, come quella del Tetû, agivano spesso autonomamente.
Il coraggio e l’ardimento non mancavano ai giovani partigiani, ma difettava loro la preparazione e recentemente anche la forza fisica: l’inverno era stato particolarmente rigido e il cibo era stato razionato; alcuni giovani si erano ammalati e non sarebbero stati in grado di affrontare il nemico. Nonostante le defezioni si può ipotizzare che i giovani rimasti nella banda cattolica fossero ancora molti, anche se non più i 180 riuniti da Geuna. Il partigiano pinaschese Mario Rostagno ricorderà che al Gran Dubbione vi erano numerosi partigiani, insediati in particolare alle Miande ’d Giors, baite d’alpeggio abbandonate e situate lungo il sentiero che porta dal colle del Besso (1464 m) alla Punta dell’Aquila (2119 m): “scendono dalle Miande per partecipare alla messa e per andare a mangiare dal parroco Don Bessone oppure per andare a comprare (o “prelevare” con la promessa di un futuro pagamento) viveri da Pietro Ughetto, esercente della panetteria-commestibili di Gran Dubbione”[86].
Quando il pinaschese Mario Rostagno chiese ai giovani chi fossero, gli risposero “Ah noi siamo solo ragazzi che sono venuti da Torino”. Mario Rostagno li mise in guardia avvertendoli che la loro presenza al Gran Dubbione era già nota a molti, forse a troppi, ma lo rassicurarono dicendo “Ah, non vengono fin qua a cercarci”[87]. Pareva che i giovani della banda si sentissero al sicuro anche se scarseggiavano le armi e in caso di attacco avrebbero avuto solo la fuga come arma di difesa. Si sentivano protetti dalla natura del luogo come il fuggiasco di Pavese: “Lassù era pieno di nascondigli e di valloni, di stradette perdute nella macchia, di salti improvvisi nel vuoto…avevo ritrovato quella speranza, quella libertà, e capivo che per viverla bastava pensarla reale. Qui non c’erano le case, le soffitte e le piazze dove il pericolo guatava all’angolo. Qui nessuno mi aspettava a un appuntamento mortale.”[88]
La situazione non era affatto tranquilla come pensava la maggior parte di loro e degenerò rapidamente. Il 7 maggio Don Bessone ricevette la visita di un impiegato della RIV [89]inviato con una proposta di resa rivolta ai partigiani insediati al Gran Dubbione. La resa comportava la consegna delle armi e, in cambio, verso i giovani “sarebbero usati tutti i riguardi, arruolandoli nelle file repubblicane, o mandandoli a casa”[90]. La proposta non venne accettata perché spesso i fascisti, anche su ordine del comando tedesco, usavano bandi e proposte concilianti per far uscire allo scoperto i partigiani e i renitenti alla leva e con l’inganno ottenerne la resa. Era già successo il 10 aprile ad Alessandria quando moltissimi giovani erano caduti in una trappola simile: 200 furono deportati nei lager nazisti e solo a trenta fu concesso di tornare a casa[91]. Di un simile inganno era stato vittima anche Marcellin a fine aprile a Chargeoir, quando erano stati arrestati venti partigiani con l’inganno e la menzogna[92].
Due giorni dopo, il 9 maggio, Marcellin, di ritorno da un mancato convegno in Val Germanasca a Perrero[93], giunse al Gran Dubbione per incontrare il “Tenente Franco” e meglio coordinare l’attività della banda[94]. Il “Tenente Franco” gli comunicò che si erano acquietati i dissidi nella banda, ma lamentò l’annosa carenza di armi. Marcellin, che aveva a disposizione molte armi custodite in alta valle, assicurò di avere già studiato un piano per portarle fino al Gran Dubbione e di aver incaricato del trasporto “Baldin”[95], che lo stava raggiungendo per istruire militarmente i giovani del Gran Dubbione[96].
Marcellin avvertì il “Tenente Franco” che si prevedeva un prossimo rastrellamento in zona e gli suggerì di dividere la banda e di spostarsi altrove. Una strategia raccomandata anche dallo stesso CLN che consigliava di compiere frequenti spostamenti ed evitare aggregazioni di difficile gestione e pericolose forme di adattamento allo status quo[97].
Il giorno stesso all’imbrunire Marcellin stava raggiungendo le Miande quando venne raggiunto dal sedicenne Riccardo Richiardone e da suo padre[98], che gli comunicarono l’arrivo in fondovalle di cinquantasette torpedoni carichi di tedeschi e repubblichini e di alcuni camion colmi di materiali e vettovaglie, segno che il rastrellamento avrebbe interessato una zona molto vasta e sarebbe durato a lungo. Le operazioni nazifasciste erano dunque terribilmente vicine e Marcellin affidò alle staffette messaggi per avvertire i comandi di tutte le bande della zona. Al giovane Richiardone affidò un messaggio per i partigiani di Perrero. Lui stesso avvertì i giovani del Gran Dubbione e consigliò loro di nascondere i materiali e i viveri e di fuggire “nel folto delle verne”[99] per raggiungere, nell’oscurità dei fitti boschi di ontani, luoghi più sicuri.
Il rastrellamento avrebbe dovuto iniziare il giorno dopo, il 10 maggio, ma l’operazione era chiamata Habicht (“astore”) e, come falchi, i nazifascisti non attesero oltre per lanciarsi sulla preda: il rastrellamento iniziò subito, quella stessa sera.
L’operazione Habicht. “Il 10 maggio del 1944 la val Sangone viene investita da un massiccio rastrellamento: l’operazione denominata Habicht si conclude il 18 maggio (ma le fucilazioni proseguirono fino al 26 maggio[100]) e registra oltre cento partigiani e circa diciotto civili (le fonti tedesche parlano però di centocinquantasei morti) uccisi tra combattimenti ed eccidi, borgate saccheggiate e bruciate (in particolare Forno e Pontetto), deportazioni. L’operazione coinvolge l’area di Cumiana, Barge e le valli di Susa, Chisone, Germanasca, Sangone e Troncea ed è condotta da reggimenti di Polizia SS, da reparti di polizia militare, da compagnie di Battaglioni dell’Est, da un plotone di gendarmeria tedesco a cui si aggiungono gli italiani: la compagnia Arditi del Battaglione Guardie Confinarie della Guardia Nazionale Repubblicana; la compagnia OP della Guardia Nazionale Repubblicana di Torino; cinquanta legionari del Gruppo “Leonessa”. Sono circa millecinquecento e dieci gli uomini impegnati nelle operazioni. I documenti delle Brigate Garibaldi denunciano le violenze e le torture subite dai partigiani prima di essere sommariamente giustiziati. In molti casi si parla di uomini sepolti ancora vivi”.[101]
Gli uomini impegnati erano circa millecinquecento appartenenti a vari gruppi militari e di polizia, sia tedeschi sia repubblichini, sotto un unico comando, quello del colonnello tedesco Ludwig Buch. L’operazione aveva come epicentro l’Alta Val Sangone, ma abbracciava anche le aree limitrofe per poter tagliare tutte le eventuali vie di fuga ai partigiani e interessò anche la Val Germanasca[102]. Non si trattava, come nei mesi precedenti, di incursioni intese ad annientare questa o quella banda, ma di un’azione a vasto raggio con impiego di notevoli forze che contemplavano uno sfondamento centrale e il contemporaneo aggiramento delle ali per chiudere le bande in una tenaglia invalicabile[103].
Le truppe nazifasciste iniziarono accorte a salire verso il Gran Dubbione, anche l’incedere dei muli fu silenziato con stracci avvolti intorno agli zoccoli[104]. Presero diversi sentieri e mulattiere al fine di occupare un fronte più ampio possibile. Incrociarono Riccardo Richiardone e suo padre; non solo li arrestarono perché colti in pieno orario di coprifuoco, ma li obbligarono a tornare sui loro passi verso il Gran Dubbione con uno zaino pieno di bombe per usarli come scudi umani[105].
Sarebbe stato un attacco a sorpresa perfettamente riuscito, se un tedesco non avesse premuto accidentalmente il grilletto[106]. Il colpo di arma da fuoco, letale per il soldato, riecheggiò nella valle. I giovani della banda accelerarono immediatamente i preparativi per la fuga e l’occultamento di tutto ciò che avrebbe potuto tradire la loro presenza; alcuni, in evidente stato di agitazione, compirono l’operazione affannosamente senza controllarne l’esito, altri individuarono i nascondigli migliori cercando di coprirli bene con fieno e legna.
Mentre già si intravvedevano i primi nazifascisti, i giovani iniziarono a correre cercando riparo nella fitta vegetazione e nel bosco di ontani (come aveva loro raccomandato Marcellin) dividendosi in piccoli gruppi. La via di fuga per alcuni rimase aperta, per altri, solo qualche secondo dopo, risultò irrimediabilmente sbarrata da mitra spianati.
La strage. Per la banda del Gran Dubbione fu un massacro[107]; dodici partigiani furono fucilati al ponte delle Balze presso Pinasca[108], uno fu trascinato insanguinato per un’intera giornata per le vie di Perosa e il 13 maggio fucilato al convitto Abegg. Si chiamava Stefano Manassero, anni 21 anni. Ne vennero catturati poi altri 14 e portati a Torino alle Nuove; il 26 maggio saranno trasferiti in Val Sangone e lì fucilati[109]. A questo secondo gruppo di prigionieri si riferisce probabilmente don Giuseppe Marabotto, cappellano di Thures, sopra Cesana, nel suo libro “Un prete in galera” quando riporta i nomi di Mario Groppo, Aldo Corinno, Carlo Bruno, Agostino Cavallero, Ugo Ceresero detto Birba, Giuseppe Borgiatto, Domenico Folis, Giovanni Medici, Giovanni Morra, Giuseppe Rosso e Francesco Virano, e afferma che furono “catturati e fucilati in varie località della val Sangone nello stesso mese di maggio”[110]. Dopo il rastrellamento, il Gran Dubbione perse per molto tempo la sua rilevanza nella lotta partigiana. Solo nell’autunno 1944 Marcellin deciderà di tornarvi per stabilire la sede del proprio comando.
Valter riuscì a sfuggire al rastrellamento con Carlo Ibolino e un piccolo gruppo di partigiani. Si allontanarono velocemente dal Gran Dubbione verso il monte dell’Aquila tenendosi a distanza dai sentieri. Quando il crepitio delle armi e le grida convulse sembravano lontane, alcuni si fermarono; tutti erano scivolati in più occasioni cercando di sottrarsi alla luce della luna crescente: a un giovane colava sangue dalla testa, un altro zoppicava vistosamente, altri due terrorizzati respiravano affannosamente, altri ancora tremavano dalla fatica, a tutti colava sangue dalle gambe; l’adrenalina aveva agito da analgesico e solo ora sul piccolo pianoro si accorgevano quanto violentemente i cespugli e i rovi avessero loro sferzato le gambe come mille scudisciate: “Dobbiamo nasconderci prima che ci colga l’alba!” si raccomandavano l’un l’altro.
Avevano conosciuto l’efferatezza e la cinica violenza con cui i nazifascisti compivano i rastrellamenti. Alle brevi incursioni per colpire i partigiani (anche il Gran Dubbione era stato già vittima di un veloce rastrellamento 3 mesi prima[111]), da marzo i nazifascisti erano passati a veri e propri atti di guerra finalizzati all’annientamento delle bande e che coinvolgevano per giorni e giorni milizie anche italiane e un dispiegamento di mezzi e di uomini rilevante sotto un unico comando, quello tedesco: era una guerra vera e propria con l’occupazione stabile del territorio[112]. Poco importava al comando tedesco se al Gran Dubbione vi erano solo giovani inesperti nell’arte militare, giovani che per evitare rappresaglie sulla popolazione avrebbero comunque deciso di non rispondere al fuoco nemico. E l’avrebbero fatto anche quelli che avevano una certa preparazione nell’uso delle armi. Tutti conobbero in una sola notte quanto poteva essere crudele la guerra sul campo[113]; non erano preparati ad affrontare tanta efferatezza e determinazione neppure i militari come Valter, perché come ricorderà amaramente Marcellin: “Nell’esercito di Mussolini nessuno aveva insegnato ai soldati a fare veramente la guerra”[114].
Nuto Revelli spiega così la differenza tra i militari tedeschi e le truppe fasciste “Sono i tedeschi che ci preoccupano come combattenti, i fascisti no. Sono i tedeschi che ci preoccupano perché nei rastrellamenti in grande stile, impiegano dei reparti particolarmente addestrati per la lotta antipartigiana. Fanno arrivare reparti dal Veneto, da altre zone, reparti di Alpenjäger, di truppe di montagna, gente esperta, gente che sa combattere in montagna[115].
Dallo sparuto gruppetto si levavano solo mormorii e scampoli di frase tra un respiro affannoso e l’altro: “Nell’aria mancava l’ossigeno”, “C’era solo rabbia e odio.” “Li abbiamo respirati.” “Sembravano segugi.” “Noi lepri in fuga. Temevo di morire a 19 anni” “Diciannove?” “Beh, non ancora, tra pochi giorni!”. Altri ricordavano le illusioni dei primi giorni: “Pensavamo che la guerra fosse finita” “Beh, lo pensavano in molti” “Che cosa facciamo adesso? Non sappiamo neppure dove ci troviamo esattamente”.
Li raggiunsero altri giovani stremati guidati da Giorgio Catti che riferì immediatamente: “Ho visto portare via don Bessone”[116] e aggiunse rivolgendosi a Valter: “Forse hanno trovato il tuo diario” . Il Tenente Franco annuì mentre cercava di capire le condizioni di ciascuno. Il pensiero di Valter andò subito a quello che vi aveva scritto, lo rilesse mentalmente; era certo di avere usato solo sigle di luoghi, soprannomi di partigiani, abbreviazioni di vettovaglie, ricevute e numeri. Aveva citato il parroco, quello sì, ma solo per elencare il numero di pasti che don Bessone aveva fornito ai giovani partigiani.
Il gruppo trovò un riparo in alcune baite diroccate. I raggi del sole iniziavano a filtrare tra le foglie degli alberi. Ancora si avvertiva il freddo pungente della notte quando il silenzio fu interrotto da un fruscio di fogliame e da un insistente calpestio che giungevano dalla mulattiera; le sentinelle poco dopo scorsero l’origine di quei rumori ovattati: vi erano alcuni militari che avanzano lungo il sentiero. Chi fossero la candida e fitta nebbia mattutina impediva di saperlo. Il gruppo decise di salire verso la cima dell’Aquila e attendere che la zona tornasse sicura, ma qualche ora dopo i soldati erano ancora lì nelle baite e non era dato sapere chi fossero. Era necessario restare fermi, immobili, anche se il vento gelido intirizziva gli arti. La postazione era precaria e fu allora che il “Tenente Franco” decise coraggiosamente di scendere alle baite. Si trovò di fronte gli “Alpenjäger”, gli alpini tedeschi, che lo fermarono immediatamente. Per salvare i suoi compagni assicurò loro di essere solo e sbandato[117]. Fu fatto prigioniero. Rimarrà in carcere fino alla fine di giugno 1944[118].
Il gruppo di alpini tedeschi sgombrarono al fine il terreno dirigendosi verso il Colle della Roussa per attaccare dall’alto i partigiani della Val Sangone; là si scontreranno con la banda De Vitis e con quella di Giulio e Franco Nicoletta[119].
Anche Baldin che, come preannunciato da Marcellin, stava raggiungendo il Gran Dubbione, fu vittima del rastrellamento nel vallone della Roussa e vide decimata la sua squadra. Baldin riuscì poi a raggiungere Marcellin che, con Toya e Juvenal, aveva trovato un angusto rifugio di fortuna; alte fiamme si alzavano dalle povere case della Val Sangone[120].
La nebbia si era diradata e la situazione pareva più tranquilla. Grazie al coraggio del Tenente Franco non erano caduti nelle mani del nemico – l’avevano scampata per un “pelo di pulce”, se vogliamo usare una metafora cara a Beppe Fenoglio[121] – ma la presenza di quel contingente nazista arrivato dall’alto convinse il gruppo che non bastava solo allontanarsi ma occorreva anche salire. Giorgio Catti prese il comando del gruppo[122]. Avanzava con passo sicuro e veloce lungo gli angusti sentieri e sulle ripide mulattiere che aveva percorso in tempo di pace con l’amico Gianni Daghero. La sera Giorgio Catti come era suo solito recitava il Padre Nostro a bassa voce, i più lo seguivano nella preghiera, altri chinavano la testa lasciandosi avvolgere dalla forza della sua fede. Come scriverà un suo compagno di lotta “Egli sapeva conciliare le inevitabili durezze della vita partigiana con quelle che erano le doti caratteristiche del suo animo: amore, comprensione e perdono per quelli che gli facevano del male”[123].
La fede non poteva però sedare l’angoscia che saliva alla gola e accelerava i battiti cardiaci. Le dita iniziavano a tremare, e non solo per il freddo, quando dal folto della vegetazione o dal fondo di una balza giungevano rumori che parevano uno strepitio, o un’ombra pareva muoversi verso di loro: non avevano altra difesa che la fuga con i loro pesanti i fucili ad armacollo e le bisacce quasi vuote. Per giorni furono costretti a marce forzate, a bere la gelida acqua dei pochi rii, a dormire all’addiaccio, e, quando la fame si faceva insostenibile, a nutrirsi di foglie di tarassaco appena spuntato[124].
L’alta montagna da rifugio stava diventando la loro prigione. Per Valter fu il periodo più buio: al Gran Dubbione, come il resto del gruppo, aveva lasciato materiali, vestiti, calzature nuove, coperte e ora si trovava a dormire a terra o sulla paglia umida. Di giorno il sole era abbastanza caldo ma già a metà pomeriggio le alte montagne lo oscuravano e nella notte la temperatura si abbassava progressivamente. Le coperte erano poche e dimora di pidocchi voraci (impensabile scaldare dell’acqua per lavarle e poi farle asciugare[125]). Per una decina di giorni si resero necessari spostamenti quasi quotidiani, sempre più in alto, sempre più al freddo, ora nella neve, ora nel fango, tra le rocce di una scarpata o nel fitto dei boschi di ontani, superando o aggirando rittani e forre rimanendo sempre lontani da prati e pascoli. Quando pioveva, poi, diventava impossibile trovare un giaciglio asciutto per riposare. Notti insonni; alle 4 ci si rimetteva in marcia per combattere il gelo delle ore più fredde. Quando lo sparuto gruppo raggiunse l’alta Val Chisone era stremato e confuso, da giorni erano terminati i pochi viveri presi velocemente prima della fuga, alcuni nello sconforto si sedettero sui massi, altri su tronchi abbandonati poco più in là. Valter aveva la barba lunga, le vesti umide e sporche di fango, le calze di lana a brandelli, le suole scucite, le dita dei piedi doloranti, alcune anche congelate; camminava a fatica[126]. Il silenzio agghiacciante della rassegnazione tagliava le gambe. Avevano fatto del loro meglio per fuggire al rastrellamento e per avvicinarsi quanto più possibile alle postazioni che ritenevano ancora occupate dalla Div. Chisone. Nessuno di loro inveiva contro la cattiva sorte, qualcuno pregava. Il soccorso tanto atteso arrivò solo dopo il 21 maggio quando i reparti nazifascisti, convinti di aver annientato la Resistenza, abbandonarono l’alta valle e i partigiani ripresero il controllo del territorio.
Doc. A3: Prese parte ad altre azioni e missioni di minor importanza per procacciare alla banda materiale vario.
Del gruppo, ormai irrimediabilmente decimato, alcuni decisero di andare verso la Val Sangone[127], altri, tra cui Valter, si misero a disposizione della Divisione.
A dimostrazione di un amore per la libertà che faceva superare ogni tipo di difficoltà e di privazione, il comando militare dei partigiani della Valle Chisone si riorganizzò e insediò in alta Val Chisone da Villaretto al Colle del Sestriere e in alta Val di Susa una “zona libera” [128] che comprendeva anche alcuni presidi sulla sinistra orografica della bassa Val Chisone. Il coordinamento tra le varie formazioni permise di agire come battaglioni e reggimenti di un esercito regolare, accuratamente descritti da Ettore Serafino[129], comandante del Battaglione autonomo “Monte Assietta”, e consentirà, nella seconda quindicina di luglio, di difendere le postazioni dai pesanti attacchi del nemico. La guerra aveva preso il posto della guerriglia. Valter, nonostante le precarie condizioni di salute, vi partecipò occupandosi della difesa dei carriaggi durante il trasporto degli approvvigionamenti alimentari dalla pianura alla montagna[130]. Proseguì la sua attività, probabilmente a Villaretto, pur sapendo di essere ricercato dalle SS (come si afferma nel Doc. B) a causa del suo diario finito in mani nemiche al Gran Dubbione.
Doc. A4: Lasciò la banda per sbandamento della stessa. L’esperienza della “Banda Geuna” era giunta ormai al termine. Alcuni preferirono proseguire la lotta in montagna, altri, come Valter, Ibolino e Costamagna, furono assegnati al gruppo partigiano che faceva capo al Ten. Col. Eugenio Reisoli Matthieu. Tale assegnazione fu decisa probabilmente da Ettore Serafino che collaborava all’attività di Reisoli[131].Da questo momento Valter assunse il soprannome di Gualtiero, italianizzazione di Walter. Per il trasferimento a Torino optò per mezzi di fortuna perché nella vicina Val di Susa era in atto una vasta retata di uomini dai 15 ai 60 anni da avviare in Germania per il lavoro coatto. Da Torino furono deportati in 1200 stipati in 40 vagoni. In una simile operazione in Liguria furono rastrellati in 1448 caricati a Genova su 43 vagoni[132].
[1] Intersimone 1972, p. 20.
[2] La data è tratta dalla scheda dell’ISTORETO.
[3]Comello 1998, p. 38.
[4]Comello 1998, p. 31-32.
[5] Fusi 1974, p. 46. L’incontro viene ricordato anche da Silvio Geuna (Geuna 1977, p. 82, 85-86) che definisce Guglielminetti “esponente magnifico dei cattolici torinesi”.
[6] Geuna 1977, p. 32
[7] La sua scheda della Banca dati dell’ISTORETO data la sua adesione al 15/9/1943. Nel 1947 sposò Maria Romana De Gasperi, testimoni furono Silvio Geuna ed Ennio Pistoi.
[8] Geuna 1977, p.34: “Alp dël Capitani (così era detto il posto)”.
[9]Comello 1998, p. 32.
[10] Un affascinante ritratto della personalità di Marcellin in Gobetti 2014, p. 138-139.
[11] Comello 1998, p. 35.
[12] Geuna 1977, p. 85. Probabilmente la sua presenza sopra Cumiana fu temporanea perché la scheda dell’ISTORETO lo dice appartenente alla Brigata Val Pellice.
[13] Geuna 1977, p. 85.
[15] Geuna 1977.
[16] Geuna, 1977, p. 84.
[17] Geuna li chiama “i miei ragazzi”, aggiungendo che appartengono alla “prima banda ufficiale della Democrazia Cristiana in Piemonte, da me fondata” (Geuna 1977, p. 14-15). Si veda anche Comello 1998, p. 40.
[18] Geuna 1977, p. 33.
[19] Bobbio 2015, discorso del 15 dicembre 1955.
[20] Toccante sua biografia in Groppo 1990, p. 52-53. Vi si ricorda, oltre all’eroica morte sul Genevry
[21]Intersimone 1972, p. 30.
[22] Con il termine “repubblichini” si intendono le varie formazioni fasciste organizzate dai tedeschi in funzione antipartigiana: la Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R., praticamente l’esercito della repubblica di Salò), la Decima Mas comandata dal Principe Borghese, i Cacciatori delle Alpi (pochi elementi in Val d’Aosta), le Brigate Nere note per la loro crudeltà, le S.S. italiane e gli alpini della Monte Rosa che i tedeschi avevano addestrato in Germania, nonché squadre formate da tedeschi di origine russa e ucraina note per la loro ferocia Testimonianza di Giorgio Cavallo Perin, in Crivellin 1998, p.58.
[23] Oliva 1989, p. 107 e Boccalatte 2006, p. 272. Felice Cordero di Pamparato, venticinquenne ex ufficiale di artiglieria attivo nella banda di Geuna fino ad aprile 1944. Geuna gli affidò per qualche tempo il comando anche della propria banda prima di affidarla a Felice Gariglio (Geuna 1977, p. 85). Operò poi nella banda “Nino e Carlo”, dove comandò una brigata che da lui prese il nome “Campana” e che operava nella Vallata del Romarolo, uno dei sei valloni della Val Sangone non distante dall’Alp del Capitano. Felice Cordero di Pamparato fu arrestato e impiccato il 17 agosto 1944 (Oliva 1989, p. 249, Leoni 2022, p. 281).
[24] Geuna 1977, p. 34.
[25] In Val Chisone Gianni Daghero “Lupo”, studente del 4° anno di ingegneria, fu incaricato da Marcellin all’inizio di marzo di costruire linee telegrafiche, asportando il materiale al nemico, ed elettriche per portare la luce alle cinque borgate del Bourcet (Marcellin 1966, p. 56-57). All’inizio di maggio, con il benestare di Marcellin, costituì una compagnia con sede alla Balziglia (Marcellin 1966, p. 80).
[26]La resistenza in Val Chisone.
[27] Revelli 2003, p.148.
[28] Comello 1998, p. 41.
[29] Il delatore era uno sfollato di Bròzolo nel casalese che, prima si era offerto come partigiano, poi, una volta rifiutato, andava in giro per il paese indicando Geuna come comandante dei partigiani. Geuna lo affrontò intimandogli il silenzio ma lui, per tutta risposta, il giorno dopo lo denunciò al comando tedesco. Geuna 1977, p. 33.
[30] Geuna 1977, p. 32.
[31]Ampio resoconto in Geuna 1977, p. 34-41 e Comello 1998, p. 41-44.
[32] L’albergo (allora pensione) Nazionale si trovava in via Roma (piazza CLN) 254 ed era la sede della Gestapo, famigerato luogo di cruenti interrogatori dei prigionieri politici detenuti alle Nuove (Torino 2010, p. 82-83).
[33] Comello 1998, 43.
[34] Fusi 1974, p. 48.
[35] Boccalatte 2006, p. 262-263.
[36] Comello 1998, p. 45. Boccalatte 2006, p. 262.
[37] Comello 1998, p. 45. Boccalatte 2006, p. 262.
[38] Leoni 2022, p. 178-180.
[39] Comello 1998, p. 46.
[40] Comello 1998, p. 45.
[41] Aimino 2014b, p. 45.
[42] Comello 1998, p. 51.
[43] Chevallard 1995, p. 201.
[44]Frasi di Giorgio Catti
[45] 1 Gv 3,15, Ravasi 2009, p. 186.
[46] Accornero 2018. Numerose sono le riflessioni sulla valutazione morale del coinvolgimento dei cattolici nella guerra di Liberazione e non soltanto in Italia. Nel film cecoslovacco “Il principio superiore” di Jjri Krajcik del 1960 il protagonista pone in discussione il Comandamento “Non uccidere” chiedendosi se sia lecito o meno l’omicidio nei confronti del nemico della patria. Il comandamento è esplicito riguardo a ogni forma di violenza ma specialmente “l’ultimo conflitto ha portato ad aberrazioni tali che l’ordine morale di interi popoli ha subito paurosi sbandamenti quando non è stato addirittura sovvertito. Si è presentata la necessità di una autodifesa, che ha portato anche i cattolici a dar vita alla Resistenza armata contro chi lacerava e bagnava di sangue innocente il suolo della patria” (Bongioanni 1956, p. 143).
[47] Piva 2015, p. 9-11.
[48] Piva 2015, p. 8. “I cattolici combatterono nelle varie formazioni per realizzare un domani di libertà e di giustizia fra i popoli. Fu perciò una lotta ideale. Per questo i nostri fratelli sono morti davanti ai plotoni di esecuzione, perdonando l’uccisore” (Ghetti 1965).
[49] Intersimone 1972, p. 9.
[50] Oliva 1989, p. 110-111.
[51] Rostan 2019, p. 72.
[52] In considerazione del fatto che le azioni militari della banda Geuna erano svolte nel più ampio quadro della Divisione Autonoma di Marcellin (Marcellin 1966, p. 83), è presumibile che l’operazione fu suggerita proprio da Marcellin e comunicata alla banda Geuna da Daghero.
[53]Ai 25 nomi che compaiono nell’elenco di Comello 1998, p. 58-62, devono esser aggiunti sia Valter sia Piero Catti che altre fonti pongono al comando dell’incursione (50 anni 2017, p. 22 e Intersimone 1972, p. 31), nonché De Albera Mattia (n.1925) della 43^ Div. De Vitis che, come risulta dalle schede dell’ISTORETO, fu deportato l’8 marzo, giorno dell’incursione. Una relazione dei Carabinieri (Comello 1998, p. 61) riferisce in verità di due partigiani catturati. Il numero complessivo dei partigiani partecipanti all’incursione potrebbe esser stato dunque vicino alle 30 unità.
[54]https://anselmo1857.it/about-us/ (visitato il 9.8.2021).
[55]http://www.comune.none.to.it/index.php?option=com_content&view=article&id=74&Itemid=232 (visitato il 9.8.2021)
[56] Intersimone 1972, p.31
[57]Cfr. Scheda ISTORETO.
[58]http://www.comune.none.to.it/index.php?option=com_content&view=article&id=74&Itemid=232 (visitato il 9.8.2021. Numerosi purtroppo sono gli esempi di questa turpe pratica, documentata anche negli Appunti partigiani (Fenoglio 1994, p. 6).
[59]Questa è l’ipotesi avanzata da Comello 1998, p.61.
[60]Comello 1998, p. 71.
[61] Franzinelli 2001, p. 65.
[62] Punzani 2015, p. 8.
[63]Peculiarità della Germania sia della Prima sia della Seconda guerra mondiale, proprio del suo DNA, come giustamente sottolineato da Alessandro Barbero.
[64]Comello 1998, p. 64.
[65]Comello 1998, p. 66.
[66]Comello 1998, p. 70 e 78.
[67] Boccalatte 2006, p. 261.
[68]Comello 1998, p. 71.
[69] Prot 2021, p. 22.
[70] Geuna 1977, p. 84.
[71] Come ricordato in Geuna 1977, p.81. Gino Baracco già nel luglio 1943 partecipò a diverse riunioni con Andrea Guglielminetti per la fondazione del nuovo partito della Democrazia Cristiana; ricoprì, poi, importanti cariche nel Comando militare regionale piemontese; si veda sua intervista in Crivellin 2000, p. 37-49.
[72] Bianchi 2011, p.31
[73] Marcellin 1966, p. 82.
[74] Maurilio Fossati, “Ai rev.di Sig. Parroci. L’opera del clero e dei cattolici italiani nella guerra 1940-45”, Rivista Diocesana Torinese 22, n. 9 (1945), p.107-109.
[75] Marchis 1987a, p.104.
[76] Ponsat 2013, 2^ parte, p. 188-194. La relazione rappresenta una fonte di primaria importanza per ricostruire gli avvenimenti dei giovani della Banda Geuna al Gran Dubbione.
[77] Geuna 1977, p. 11; Fusi 1974, p. 71-83. Gli arresti portarono alla condanna esemplare (fortemente voluta da Mussolini) di Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Enrico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti al Poligono di tiro del Martinetto, Torino. Pur essendo stato condannato all’ergastolo, Geuna, scapolo, chiese invano di essere fucilato al posto del generale Perotti che aveva moglie e figli (il coraggioso atto di Geuna fu sottolineato già nei giorni seguenti dai giornali clandestini come nella prima pagina de “Il Partigiano Alpino”, Anno I, n. 2). Valdo Fusi, assolto per insufficienza di prove, raggiunse l’Ossola e si unì ai partigiani della Divisione “Piave”.
[78] Regione 1995, p. 2 di copertina, elenco delle “Formazioni partigiane”; Catti 2017, p.12.
[79] Trabucco 2015, p. 74.
[80] Prot 2021, p. 24
[81] Marcellin 1966, p. 81.
[82] La vita quotidiana del Gran Dubbione negli Anni Quaranta viene ben descritta da G. Ponsat (Ponsat 2013, seconda parte, p.118).
[83] Prot 2021, p. 25
[84] Prot 2021, p. 24.
[85] Testimonianza di don Giuseppe Marabotto in Comello 1998, p. 38.
[86] A dicembre 1945 Ughetto denuncerà come danni di guerra non solo il prelievo dei molti viveri, bottiglie di liquori, prosciutto e vari altri articoli anche di vestiario che sarà effettuato dai nazifascisti nel rastrellamento di maggio, ma anche il prelievo di pane e farina operato dai partigiani. Al di là della precisione, quasi maniacale, dell’elenco fatto da Ughetto non può passare inosservato il fatto che egli metta sullo stesso piano il prelievo dei nazifascisti e quello dei partigiani, quasi che quello dei secondi non potesse essere compreso in una qualche forma di collaborazione e solidarietà con giovani che stavano comunque rischiando la vita per proteggere persone e cose dai rastrellamenti dei tedeschi, una solidarietà che a dicembre 1945 non rischiava più di essere una colpa ma poteva essere presentata addirittura come un vanto. Sonzini 2013, p. 151-152. “Niente è più spiacevole di una persona virtuosa con una mente meschina”, affermava correttamente il giornalista britannico Walter Bagehot (1826-1877).
[87] Prot 2021, p. 28.
[88] Cesare Pavese, Il fuggiasco in Pedullà 2005, p.207-208.
[89] Lo stabilimento della RIV di Villar Perosa lavorava a pieno regime per i tedeschi. Groppo 1990, p. 34.
[90] Prot 2021, p. 31.
[91] Avondo 2013, p. 63.
[92] Marcellin 1966, p. 64.
[93] Marcellin 1966, p. 82. Tema del convegno era il controllo della val Germanasca, cioè se spettasse ai partigiani della Val Pellice o a quelli della Val Chisone, e in particolare a “Lupo”.
[94] Trabucco 2015, p.77.
[95] Soprannome di Enrico Poet, cugino di Marcellin. Da giugno 1944, formalmente il suo soprannome è Baldin I per non confonderlo con Baldin II, soprannome di Angelo Poet (si vedano le rispettive schede ISTORETO).
[96] Marcellin 1966, p. 83, Sonzini 2013, p. 131.
[98] A far da staffetta al Gran Dubbione era solitamente Viola Lageard. Quel giorno andò Riccardo perché lei il giorno prima era andata già due volte al Gran Dubbione (Rostan 2019, p. 22).
[99] Marcellin 1966, p. 85.
[100] Aimino 2017, p. 67.
[101] Narrazione di Barbara Berruti in http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1037 (cit. in Prot 2021, p. 35). Si veda anche Trabucco 2015, p. 89.
[102] In Val Germanasca venne attaccata la banda di “Lupo” che fu costretta a rifugiarsi in grange abbandonate sopra la Balziglia e, poco dopo, ancora più in alto sulla cresta dei Quattro Denti (Trabucco 2015, p.78).
[103] Da marzo era questa la tattica adottata dai nazifascisti in Val Chisone come nelle Valli di Lanzo (Dolino 1989, p.24)
[104] Il comando nazista ben presto comprese che nel contesto alpino i carri armati, le autoblinde e i camion corazzati non potevano bastare e per questo incaricò i podestà di requisire alla popolazione locale asini, muli e cavalli, nonché carri a traino da utilizzare per le incursioni e i rastrellamenti nazifascisti in montagna. Sonzini 2013, p. 85-87.
[105] Riccardo Richiardone (che appena gli fu possibile si liberò del messaggio affidatogli da Marcellin) e suo padre furono condannati a morte, ma riuscirono a convincere i tedeschi di essere dipendenti della R.I.V. e furono liberati (Rostan 2019, p. 22-23).
[106] Boccalatte 2006, p. 295.
[107] Il rastrellamento fu un duro colpo per la i partigiani della Val Sangone non perché non fossero stati avvertiti per tempo ma perché non vi era sufficiente coordinamento tra i vari gruppi di partigiani (Oliva, 1989, p. 190-198)..
[108] Trabucco 2015, p. 78. A.Trabucco aggiunge che la lapide al ponte non porta i nomi perché non fu possibile accertarli
[109] Aimino 2017, p. 67.
[110] Comello 1998, p. 38. I nomi dei caduti elencati da don Giuseppe Marabotto trovano una certa corrispondenza nelle schede dell’ISTORETO come appartenenti alla “Banda Gran Dubbione”.
[111] Partigiani 2018, p. 37.
[112] Gay Rochat 2006, p. 79.
[113] Oliva 1989, p. 188.
[114] Marcellin 1966, p. 321.
[115] Revelli 2003, p. 148.
[116] Ponsat 2013, 2^ parte, p. 193.
[117] Intersimone 1972, p. 34
[118] Si veda la scheda dell’ISTORETO relativa a Piero Bossotto (visitato il 5/10/2022) che risulta esser stato in carcere dal 14/5/1944 al 29/6/1944.
[119] Aimino 2017, p. 64-65; Oliva 1989, p. 194.
[120] Trabucco 2015, p. 78.
[121] Fenoglio 1994, p. 50.
[122] Catti 2016, p. 22 e Intersimone 1972, p. 34. In Doc. A si afferma che la Banda “Carlo Bau” mutò il nome in banda “Giorgio Catti”.
[123] Intersimone 1972, p. 13.
[124] Intersimone 1972, p. 35.
[125] Si fa nostro il racconto di Giorgio Bocca (Bocca 2012, p.113).
[126] Le conseguenze del principio di congelamento subito in quei giorni durarono a lungo e per alcuni anni il suo incedere fu visibilmente claudicante.
[127] Intersimone 1972, p. 35.
[128] Trabucco 2015, p. 79-85.
[129] Una dettagliata descrizione delle formazioni attive nel controllo della “zona libera”, tratta dal diario di Ettore Serafino (l’introvabile Noi alpini della Val Chisone, del 1945), è riprodotta in Groppo1990, p. 37-41.
[130] Trabucco 2015, p. 82. A questa sua attività fa probabilmente riferimento il punto 3 del Doc.A.
[131] N.R.I. 1946, p. 18.
[132] Chevallard 1995, p. 257, nota 76. Gobetti 2014, p. 130-131. A Chiomonte, per eccesso di zelo, portarono via anche dei settantenni e un calzolaio zoppo (Gobetti 2014, p. 142).