La domanda per il corso allievi ufficiali venne accolta il 25 novembre 1942. La presentazione al “Centro affluenza” di Torino era fissata per il 17 dicembre.
Ad Alessandria, la mattina del 16 dicembre Valter salutò gli zii e i cugini, poi prese a braccetto la mamma e chinandosi un po’ verso i suoi occhi in lacrime le disse “Mamma, promettimi di non stancarti e di non aver pena per me; sono grande e farò il mio dovere come tu mi hai sempre insegnato. Vi scriverò spesso così la lontananza vi sarà più sopportabile. Tu, scrivimi una cartolina, almeno ogni tanto, così avrò anche vostre notizie” e salì sul treno alla volta di Torino. Il treno rallentò spesso e ci vollero oltre tre ore per arrivare a Torino. Dal finestrino, al di là dei campi Valter seguiva con gli occhi il profilo delle colline del Monferrato interrotto da fattorie, case coloniche, paesini arroccati, un paesaggio di quiete e di campiture romantiche dimentico che un’altra guerra si stava aggiungendo alla storia umana. Poi progressivamente il paesaggio si arrese alla coltre di fumo che avvolgeva Torino e un odore acre e intenso di bruciato entrò nel vagone mentre già sferragliava tra i deviatoi di Porta Nuova. Quel rollio che aveva sempre amato quel 16 dicembre gli parve un tormento. Scese al binario numero 3 dove lo attendeva puntuale papà Feliciano, sguardo basso e cupo, un sorriso accennato per un istante, poche faticose parole, un fardello pesante a inarcare la schiena; passi silenziosi lungo la banchina per arrestarsi poi alla testata del treno, estrasse dalla tasca un pacchettino di carta di recupero e glielo porse “Questo è per Natale”. Valter guardò quegli occhi lucidi. “Aprilo! Cosa aspetti?”. Ne affiorò una raccolta di poesie davvero speciale ’L Piemônt e i so pôeta[1]. Feliciano non attese che terminassero i tanti “grazie” di Valter congedandolo con un perentorio “Ora devo andare, ho da fare …”. Valter stentava a riconoscere il viso del papà tra tante rughe profonde, dolorose, che parevano di anni e non di qualche settimana. Dove se ne era andato il papà gioviale e loquace di sempre? “Ci vediamo a casa. Mamma mi ha dato cose pronte solo più da scaldare.” soggiunse avviandosi verso l’uscita e immergendosi in un mare di folla frettolosa e silenziosa; voltandosi per un attimo lo cercò per indirizzargli un cenno veloce con la mano, come faceva di solito, ma i suoi occhi, che lo cercavano già lontano, lo videro invece ancora lì seduto sulla pietra di una panchina, solo, chino col capo tra le mani.
Il pensiero non riusciva a staccarsi da quell’incontro intraducibile. Angosciato e quasi smarrito Valter si lasciò trasportare dall’onda di crocerossine e militari, le prime a passo veloce, i secondi lenti, pesanti, come automi dalle batterie esaurite. All’uscita lo spettacolo era ancor più spettrale. Fumo e polvere oscuravano il cielo: erano le 11 e mezza ma pareva d’essere all’imbrunire. Inutile attendere il tram, tutti erano a piedi. I giardini Sambuy erano colmi di gente e così anche i portici; chi chiedeva informazioni sull’orario dei treni, chi attendeva parenti e amici, chi raccontava quel che aveva vissuto, quel che aveva visto, quel che lo aveva terrorizzato, altri commentavano le notizie della radio, un ragazzino seguito da due donne spingeva un carretto pieno di cianfrusaglie e legna, due signori ben vestiti portavano pesanti valigie di cartone marrone chiaro, molti scappavano, probabilmente senza una meta precisa; i più vecchi, ormai rassegnati, se ne stavano seduti intorno alla piazza a occhi bassi in un ozio silenzioso, angosciante. La guerra ruba le forze e le speranze, annichilisce la vita anche di chi è rimasto in vita.
Valter si incamminò lungo corso Vittorio Emanuele. A terra macerie, brandelli di vestiti, ampie chiazze di polvere bianca. Che cosa fosse glielo spiegò un passante spazientito “È il fosforo lanciato dagli aerei, brucia … brucia tutto”. Nelle vie laterali altri roghi ancora fumanti. Raggiunse via Madama Cristina, dove centinaia di persone cercavano di pulire, rimuovere o solo spostare macerie infinite. Molti edifici erano sventrati, altri pericolanti, e chi si avventurava pericolosamente all’interno lo faceva per cercare qualche ricordo, qualche cosa di utile, ma anche solo per piangere. Il cuore di Valter si riempì di una desolazione infinita quando raggiunse quel che a stento rimaneva in piedi della chiesa del Sacro Cuore e dell’oratorio salesiano[2], il suo caro oratorio “Ti prego, Valter, passa a vedere – si era raccomandata la mamma – dicono che hanno bombardato la nostra chiesa”. E il suo ritorno in città si trasformò ben presto in un pellegrinaggio. Poco dopo fu la volta dell’isolato della Magistrale Regina Margherita in via Belfiore 46-48. Semplicemente non esisteva più, solo macerie informi; i banchi su cui erano cresciute speranze e amicizie erano ridotti ad assi carbonizzati[3]. Non se ne avvide ma gli si era avvicinato un quasi coetaneo “In che sezione eri” gli domandò. “Nella C” rispose Valter con un filo di voce. “Qualche bomba ed è crollato tutto… meno di un mese fa. Lì sotto c’è anche una parte di noi”. Valter annuì e, chinando la testa, fece qualche passo indietro, ripensando alle aule linde e accoglienti, ai lunghi corridoi, al vociare dei compagni. Avrebbe voluto restare immobile come si sta davanti a una lapide ma presto l’odore di distruzione e di morte si fece affatto opprimente e si allontanò, anzi quasi scappò.
A cena con papà. Cena fredda nei piatti e nelle parole. Neppure a tavola Feliciano ritrovò la sua usuale loquacità e il suo consueto ottimismo. “Non preoccuparti, papà, andrà tutto bene, questa guerra terminerà in fretta, certamente prima che io finisca il corso allievi ufficiali …”. Valter sapeva bene che quelle sue parole erano nutrite solo dalla “mendace propaganda” del regime (così la si definiva spesso alla GIAC), ma in quel momento voleva davvero credere che la guerra cessasse presto. S’attardò poi a parlare della mamma e dei parenti e della vita abbastanza tranquilla di Alessandria. Feliciano lo ascoltava senza fretta di andare a dormire. Poi un po’ a fatica si alzò e gli disse “Non perdere tempo alla sera a scrivere poesie, come è tuo solito, sarebbero solo in rima con la parola guerra! Ti posso assicurare che la guerra non è mai epica, non merita d’esser messa in rima. Se ti rimane tempo è meglio che leggi”. Spenta la candela, le attese e le preoccupazioni, che di giorno era agevole interrompere o allontanare, tornarono continue e aggrovigliate, grondando sul suo capo come acqua da un catino; nell’oscurità rivedeva in rapida caotica sequenza le macerie e le case sventrate, gli occhi impauriti di chi fuggiva e quelli annichiliti di chi non sapeva dove fuggire. Un dolore profondo e straziante lo teneva incollato al pensiero di chi aveva perso affetti, casa e forse anche la speranza di poter conoscere un mondo migliore. L’alba lo trovò ancora pensieroso e intorpidito da ore e ore di veglia inquieta.
La mattina si presentò al “Centro affluenza” di Torino. Due giorni dopo gli furono consegnati gli abiti militari da aviere con l’ordine perentorio di rispedire a casa gli indumenti civili. Da Torino gli avieri vennero trasferiti prima a Milano Tagliedo, poi all’Aeroporto “Natale Palli” di Parma dove si sarebbe svolto il “Corso Allievi Ufficiali di Complemento. Ruolo Servizi.”[4].
Da questa data ebbe inizio un lungo epistolario con i genitori e gli zii e in una delle prime lettere Valter chiese ai genitori di conservarle, cosciente forse di essere all’inizio di un percorso che andava dritto, inesorabile verso la guerra e chissà a quali altre imprevedibili atrocità.
Il suo era il primo corso per avieri in assoluto in Italia. La paga era di 3 lire al giorno; “Che volete – scriveva – lo si fa in attesa di un avvenire migliore”. Qualche giorno dopo, un allievo, sorridente e affabile, gli si avvicinò chiedendogli “Sei di Torino anche tu?” “Sì certo – rispose – perché?”. Questo fu il primo, breve approccio di Valter con Oscar Botto che diventerà uno dei suoi amici più cari e fidati. Nei giorni successivi scoprirono di aver una passione comune, quella per l’Oriente, Valter per il Giappone, Oscar Botto per l’India, e di avere anche delle conoscenze in comune: Valter conosceva Giancarlo Vallauri (1882-1957) che dirigeva l’Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris, mentre Oscar Botto stava studiando sanscrito all’Università con il fratello Mario Vallauri (1887-1964).
Le prime lettere alla mamma le inviò ad Alessandria. Ad esse aggiunse anche alcune righe dirette agli zii, molto formali e piene di espressioni affettuose e di riconoscenza, e alle cuginette, con le quali si aprì a considerazioni personali su quanto la vita militare fosse impegnativa e in fin dei conti gradita perché impediva di pensare e di farsi troppe “domande esistenziali” (lettera 26/12/42).
Gli giunse poi notizia che il cugino don Felice, nonostante fosse riformato, si era ugualmente presentato come volontario per il fronte russo eludendo i controlli dei propri superiori[5]. La sera del 21 gennaio ne parlò a lungo con il cappellano militare dell’aeroporto, Loris Capovilla, che gli aveva presentato proprio don Felice a Venezia. Da lui venne a sapere che la sua coraggiosa decisione era stata presentata come esempio encomiabile a 2000 cappellani militari riuniti a Roma. Il giorno dopo Valter si affrettò a riferire agli zii quanto appreso.
Valter scriveva ai genitori una media di due lettere alla settimana. Era preoccupato della loro salute e delle loro condizioni economiche. Il razionamento di pane, latte, carne, frutta e di altri generi alimentari fondamentali, regolamentato fin dal 1° luglio 1940 e da successive restrizioni colpiva soprattutto le famiglie di operai[6] (come la famiglia Agostini) ed era causa di un progressivo indebolimento fisico. Non meno preoccupato era delle loro condizioni economiche: l’inflazione era aumentata ulteriormente del 15% anche nel 1942[7]. Valter inviò ai genitori la tessera per il pane e diede loro precise indicazioni per avere il sussidio riservato alle famiglie dei militari: era necessario compilare il modulo specifico presso il Comune e avvertire la portinaia del palazzo che sarebbero poi passati i carabinieri per chiederle informazioni sulla situazione economica della famiglia.
Nelle lettere Valter non dimenticava mai di raccontare come si svolgeva la vita alla caserma dell’Aeroporto di Parma, rassicurando sempre sul clima amichevole che si era instaurato con i compagni di corso e il reciproco rispetto che vi era verso i superiori; “Specie i sergenti – scriveva – tutta gente che ci ama come loro figli; molti sono ritornati dai campi di battaglia ove sopra gli apparecchi hanno compiuto il loro dovere di piloti. E ora con noi ridono e parlano delle loro eroiche gesta con una semplicità ammirevole”.[8]
Teresa tornò a Torino alla fine di gennaio perché i bombardamenti sembravano cessati.
Valter scrisse al Vicedirettore dell’Istituto Galileo Ferraris per sapere se era pronto l’assegno che ancora gli spettava per l’ultimo mese di lavoro. L’assegno gli arrivò già a fine gennaio.
Intanto il 18 gennaio i genitori ricevettero finalmente la carta annonaria. Teresa seguì scrupolosamente le regole indicate e tre giorni dopo all’ora prestabilita si recò al negozio autorizzato per acquistare quanto previsto dalla tessera e si trovò di fronte una fila infinita di persone in attesa del proprio turno. A Teresa non piaceva la confusione e quando andava al mercato si teneva lontana dal vociare confuso e dalle bancarelle troppo affollate, ma finiva anche lei, che non era certo di natura loquace, per scambiare due chiacchiere con persone conosciute o vicini di casa. In quella lunga fila invece nessuno parlava, nessuno si lamentava o si permetteva di criticare quel complicato sistema di approvvigionamento. Solo un silenzio rassegnato disegnava la fila lungo il muro scrostato e umido. Spesso la sera, guardando quel poco che era riuscita a comperare, Teresa diceva a Feliciano “Potresti andare la prossima settimana dai contadini per qualche uova e un po’ di burro, e se puoi anche un coniglio”. “Certo Teresa appena ho un pomeriggio libero prendo la corriera e vado a Moncalieri in quella grande cascina lungo il Po; sono gentili e anche abbastanza onesti”. Talvolta usavano anche la tessera dello spaccio aziendale della S.I.P.[9] (come Valter ricordò loro di fare in una lettera del 21/1/43). Valter la possedeva da quando era stato assunto dall’Istituto Galileo Ferraris, ma purtroppo l’Istituto gli impose di restituirla alla fine di febbraio (lettera del 16/2/43).
Valter desiderava sentire la voce dei genitori, anche se le telefonate erano piuttosto care “Che ne direste di una telefonata? Ho saputo da un mio camerata che per chiamare a Torino si paga 2 lire al minuto. Potreste recarvi una domenica da Pina di cui naturalmente mi dovreste inviare il numero telefonico” (lettera del 31/1/43).
Ripresero intanto i massicci bombardamenti su Torino. Quello del 4 febbraio causò 29 morti[10]. Il giorno successivo Valter scrisse “Questa notte allarme di un’ora. Le notizie sono le più disparate, temo molto per voi. Ascoltatemi, affittatevi un alloggetto in una località presso Torino… Così io sarò più tranquillo”.
Non ricevendo alcuna risposta, il 9 febbraio Valter scrisse: “sono molto in pensiero per voi ché oggi i miei compagni di Torino hanno avuto tutti notizie dai loro parenti. Stamane poi ho fatto caso che sul giornale dal giorno dopo il bombardamento non è più pubblicato il Colosseo[11] nella lista dei cinema aperti: è stato forse colpito qualcosa lì vicino a casa?”
Qualche giorno dopo ricevette finalmente notizie. Teresa lo rassicurò informandolo che intendeva tornare ad Alessandria che non era stata ancora presa di mira dai bombardamenti[12]. Finalmente rincuorato, il 10 febbraio scrisse ai genitori una delle lettere più accorate e affettuose “Sapete infatti l’affetto che io ho per voi, carissimi, e temo continuamente per voi. Abbiatevi cura massima e non temete per me…A che noi ci sacrifichiamo, se sacrifici possiamo chiamare questi nostri piccoli sforzi? A che se non per rendere felici un po’ di più voi? Se non per darvi, col vedere noi felici, la felicità anche a voi? Vi giuro che se non fosse per questo mi ritirerei in una campagna a vivere in tranquilla solitudine ad attendere ai lavori agresti in mezzo alla pace dei campi, all’aria libera e sana…. Ma quando penso che ogni mia conquista nella vita è per voi fonte di gioia allora mi sento di tentare tutto per affermarmi e per poter in un prossimo domani rendervi anche migliore la vita… La mia vita? Come la posso considerare se non vostra. Sento nelle mie vene vostro il sangue, vostra quest’anima. Tu mamma… Non pensare a nulla, lascia tutti i pensieri che altro non fanno che minare la salute. Curati, scegliti i migliori alimenti, non temere di spendere… non avere quelle solite tue paure. Tu papà pure, segui i miei consigli e falli seguire a mamma con il tuo pugno di ferro che io conosco”.
Il 19 febbraio gli giunse dai parenti di Alessandria la dolorosa notizia della morte del cugino Don Felice avvenuta il 16 dicembre 1942[13], ossia il primo giorno dell’offensiva russa (“Operazione Piccolo Saturno”) che condusse alla disastrosa ritirata dell’esercito tedesco e italiano, un incubo che tormenterà i pochi reduci «Mi ritorna alla mente lo spettacolo di quella gente sfinita, con i piedi in cancrena, che non riesce più ad andare avanti, che abbiamo abbandonato ai bordi delle piste gelate»[14]. Le notizie che gli giunsero dell’accaduto erano varie e contraddittorie: si disse che aveva deciso di non unirsi alla ritirata per continuare a dare conforto ai feriti e l’ultima benedizione ai caduti affrontando senza paura nel fango gelato gli attacchi del nemico. Il 20 febbraio Valter confessò al padre “Puoi immaginare come questo grave lutto venga a riempire di malinconia i nostri cuori che sempre lo hanno seguito con affetto immenso in tutte le conquiste della sua intensa vita. Sono addolorato in modo tale che non ho nemmeno la forza di scrivere agli zii a Venezia, ma bisogna pur che un giorno o l’altro mi decida”. Riuscirà a trovare le parole più adatte solo il 9 aprile e saranno nello spirito cristiano più profondo, simili a quelle di Enzo Bianchi: “Mentre ciascuno nasce senza averlo imparato, a morire si impara, e si impara vedendo altri morire nella quotidianità, in comunione e nella pace”[15].
Valter aveva con sé l’amata Kodac instamatic e il 24 febbraio chiese al papà, in quel periodo a Cuneo per lavoro, di fargli avere il rullino “che mi aveva donato quell’ingegnere croato, dato che mi rincrescerebbe lasciarlo scadere senza adoperarlo”.
La sera i ricordi occupavano totalmente i sui pensieri. Cercò anche di contattare alcuni amici, innanzitutto Carlo Ibolino che si trovava a Pietra Ligure arruolato in fanteria in attesa di essere promosso sottufficiale.
L’11 marzo il Ministero comunicò che il corso si sarebbe trasformato in un concorso a numero chiuso. Valter capì allora il motivo delle numerose scremature fatte con le visite mediche, ma decise di tentare ugualmente l’esame per diventare “aviere scelto” perché l’alternativa sarebbe stata quella di tornare nell’esercito con poche probabilità di poter diventare in tempi stretti sottufficiale. “In questi giorni non vi scriverò – avvertì i genitori – perché saremo certo occupati e vi darò poi … il resoconto che spero sia buono”. Non comprendeva la grande paura che aleggiava tra i compagni e commentava “Mille paure per un grado rosso di aviere scelto! Neppure fosse una tesi di laurea. Si cerca di servire la Patria meglio che si può anche nelle piccole cose ed è per questo che si studia.” (30/3/1943)
Domenica 14 marzo ebbe la più grande delle sorprese, la mamma e la zia Angiolina arrivarono, dopo un lungo viaggio, all’aeroporto di Parma; nel vederle “mi rimasero – confessò al papà nella lettera del 17 marzo – le parole in gola che di tanto di cui volevo parlare nulla mi venne in mente”. “Ora sono in attesa di te – scrisse il 26 marzo al papà – Ho già provveduto a procurarmi un ricordino che ti farà piacere di certo”.
L’esame di aviere scelto fece un’ulteriore scrematura: sui 300 allievi, 80 tornarono nell’esercito a nuove destinazioni (Venaria, Caselle, Mirafiori, Milano, ecc.).
Come aviere scelto Valter ebbe un aumento di stipendio di 20 centesimi al giorno!
Per sostenere l’esame finale doveva presentare il titolo di studio rilasciato dall’Istituto Magistrale in carta bollata da Lire 8 legalizzata dal Provveditorato agli Studi, e l’iscrizione al G.U.F., anch’essa in carta bollata legalizzata dalla Federazione dei Fasci. I documenti erano urgentissimi e dato che Valter stava studiando alacremente, il 6 aprile pregò un compagno di scrivere ai genitori per spiegar loro il complesso iter burocratico necessario per avere i documenti. In particolare per il secondo i genitori avrebbero dovuto regolarizzare la quota del 1943 al G.U.F. precisando che non era stata ancora versata perché l’interessato era stato chiamato alle armi.
Dopo il lungo soggiorno ad Alessandria e uno più breve a Venezia, Teresa tornò a Torino all’inizio di aprile e Valter andò col pensiero alle mura di casa “Siete nuovamente nella nostra casetta a cui, benché piccola, si è sempre legati da immutata affezione perché è lì che abbiamo passato giorni belli che certamente e presto torneranno” (lettera del 9/4/1943).
Domenica 11 aprile papà Feliciano andò a trovare Valter con i documenti richiesti (ad eccezione del certificato di nascita) e anche una serie di squisitezze preparate da Teresa. “Mi hai, cara mamma, fatto venire la nostalgia della materna cucina che aveva tante succose sfumature pur con la carta annonaria”, scrisse il 15 aprile.
Il corso conobbe un’accelerazione; furono, di conseguenza, anticipati il termine delle lezioni alla fine di aprile e gli esami al 15 maggio, come spiegò nella lettera del 16 aprile.
Qualche giorno dopo ricevette da Venezia, dallo zio Pinotto, l’atto di nascita e il 27 aprile consegnò tutti i documenti per essere ammesso agli esami. Gli argomenti erano i più disparati: amministrazione, arte militare, materiale di volo, strumentazione di bordo, motori, armamento, fotografia aerea, servizi armati, trasporti militari, ma anche contegno, stile, codice penale e regolamenti. Come tutti gli allievi, anche Valter cominciò a studiare più intensamente. Lo fece anche Oscar Botto ma dopo una settimana circa aveva già memorizzato i manuali in dotazione e tornò alla sua adorata grammatica sanscrita.
In seguito ai bombardamenti del 25 marzo e del 25 aprile, Valter chiese, preoccupato, ai genitori di informarlo sui loro spostamenti in caso di allarme, se cioè intendessero rimanere nel rifugio della casa o recarsi in altro luogo più sicuro.
Le lettere si fecero meno frequenti; anche se gli esami procedevano bene con una media di 18-19 ventesimi, era preoccupato sull’esito finale. Il 22 maggio superò con successo anche le ultime prove. Il migliore del corso risultò Oscar Botto e la sua prodigiosa memoria destò l’ammirazione di tutti i compagni di corso.
Nei giorni successivi Valter partì alla volta di Torino in licenza. La gioia di rivedere i genitori non poteva comunque sopire la tristezza di aver di fronte una città sempre più martoriata.
Tornò presto a Parma per seguire le lezioni pratiche e partecipare alle esercitazioni della Scuola di Applicazione che aveva sede, come spiegò ai genitori il 7 luglio, a Palazzo Farnese (Palazzo della Pilotta) nel centro di Parma a una ventina di minuti dall’abitazione che gli aveva assegnato il Municipio. Non se ne lamentava ma negli scritti descriveva ampiamente la “rigida disciplina che vige alla scuola, dove un piccolo ritardo può anche causare gli arresti” (lettera del 8 luglio).
Intanto, il 12 luglio, Torino venne nuovamente bombardata in modo massiccio con numeri terrificanti: 264 bombardieri, 478 tonnellate di bombe esplosive e 285 tonnellate di bombe incendiarie che causarono l’interruzione di luce e acqua per settimane, oltre alla distruzione della rete tranviaria e una carneficina: 792 morti e 914 feriti. “Carissimi, ho saputo del bombardamento di questa notte su Torino e sono in forte apprensione per voi. Scrivete subito per rassicurarmi”. I libri di storia diranno che questo bombardamento era inteso ad accelerare i tempi dell’armistizio, una motivazione apprezzabile, ma certamente non una consolazione per chi nelle spesse nubi di polvere, fumo e morte ancora vagava in cerca di affetti e speranze.
Tra il 13 luglio e il 6 agosto l’epistolario si interruppe, ma cosa accadde alla caduta di Mussolini del 25 luglio, annunciata dalla radio alle 22.47, si può ben immaginare: anche a Parma come in ogni dove gli italiani scesero in piazza festanti, nelle piazze vennero distrutte le effigi del fascismo, strappate le fotografie di Mussolini, devastate le sedi del Partito nazionale fascista.
Il 25 luglio 1943. A Roma e a Milano ci furono i disordini più cruenti, che proseguirono fino al 28 agosto. A Torino “Molti fascisti, gerarchi e no, sono stati picchiati, parecchi uccisi”[16]. La sorte di Mussolini era ignota, ma in genere non destava compassione chi ebbe ad affermare a testa alta “Se indietreggio, uccidetemi”[17]. Dai giornali cominciarono a emergere preoccupazioni sulla “gravità della nostra posizione internazionale” [18]. La caduta del fascismo significava per tutti l’uscita dalla guerra e la pace agognata[19]. Ma che questo non fosse scontato lo si capì quando dalla politica arrivarono solo disposizioni finalizzate al mantenimento dell’ordine pubblico e notizie ambigue sulla fine della guerra. A Parma a contrapporsi con la forza ai manifestanti fu il colonnello Francesco Sebastiani, a Torino il generale Enrico Adami Rossi[20]. La storia spiegherà ampiamente come l’equivoca politica di Badoglio non fece che creare un nuovo fronte e nuovi nemici.
Nel Parmense i tedeschi scesero dal Brennero e si insediarono a soli 16 km da Parma occupando il Palazzo ducale di Colorn[21]. Intanto i bombardamenti alleati si intensificarono.
Il 6 agosto Valter scrisse la prima lettera dopo la caduta di Mussolini. Non fece commento alcuno dell’evento, ma il suo silenzio dal 13 luglio induce a pensare che vi fosse anche tra i suoi comandanti molta confusione sulla nuova situazione e sulle azioni da compiere. Forse per tranquillizzare i genitori sulla sua situazione, espresse solo la soddisfazione di esser stato nominato comandante di un plotone di una quarantina di avieri appartenente al 31° Battaglione di avieri della 2^ Compagnia. Inviò anche la fotografia del plotone quasi al completo sul Piazzale Michelangelo, a Firenze, dove risiederà per quindici giorni con una sistemazione di fortuna su un pagliericcio in fureria evitando, scrisse con leggera ironia, sia i materassi delle brande pieni di cimici, sia le costose camere in affitto in città (Lire venti a notte!). Poco dopo, venne anche nominato vicecomandante della Compagnia. Ma più delle soddisfazioni per essere riuscito a diventare sottotenente, il suo cuore era colmo di preoccupazione per i genitori perché ad agosto i bombardamenti di Torino diventarono ancora più frequenti[22]. Il rapporto britannico dirà “Nelle aree residenziali sono stati distrutti o gravemente danneggiati almeno 330 interi isolati di edifici”[23]. Il numero delle vittime fu relativamente basso, non perché i bombardieri avessero affinato la mira ma perché la città si era spopolata, oltre i due terzi dei torinesi avevano infatti lasciato la città[24]. Anche i genitori di Valter ad inizio agosto avevano lasciato Torino nuovamente alla volta di Alessandria.
Nelle lettere che seguirono Valter definì quelle che si apprestava a compiere come “esercitazioni”, ma probabilmente l’accelerazione data al corso allievi ufficiali e il trasferimento facevano parte di una strategia di attesa in vista dell’avanzata dell’esercito tedesco. Ancora per “esercitazioni” la Compagnia il 18 agosto venne trasferita a Vicchio Mugello. Il comandante si recò qualche giorno prima in loco per curare l’alloggiamento degli ufficiali e Valter, come vicecomandante di compagnia, provvide a organizzare tutte le operazioni necessarie per il trasferimento della truppa. “All’una e trenta è suonata la sveglia ed abbiamo dovuto recarci alla stazione percorrendo, per l’ultima volta, il Viale dei Colli rischiarato solo dalla luna” (lettera del 18/8).
Gli abitanti di Vicchio accolsero la Compagnia con entusiasmo e cordialità. In paese ancora si parlava della caduta di Mussolini e dell’euforia che ne era seguita. Le cronache narrano che “La notizia della caduta di Mussolini si diffuse a Vicchio già dalla sera del 25 luglio e fu accolta da esplosioni spontanee di gioia popolare. Gli operai pendolari di ritorno da Firenze, dettero vita ad un corteo improvvisato lungo il viale della stazione fino al centro abitato. Alcuni antifascisti issarono sul balcone del Comune la bandiera tricolore”[25].
All’inizio di settembre Valter e la sua Compagnia avrebbero dovuto nuovamente spostarsi in un’altra località, ma non arrivarono ordini precisi a riguardo.
[1] ’L Piemônt e i so pôeta, poesìe sërnùe da Giovanni Drovetti e presentà da Luigi Collino, Torino, F. Casanova & C. Editôr, 1927
[2] La chiesa, già bombardata il 28 novembre 1942 (www.museotorino.it/view/s/6d3c100a13804b1c9cc20c047c2312da (consultato il 6/2/2022), sarà completamente distrutta il 13 luglio 1943 (Pistoi 1997, p. 39).
[3] La scuola fu totalmente distrutta nel bombardamento notturno del 20-21 novembre 1942, Arciciock 1990, p. 50-51 (quel che rimaneva dell’edificio scolastico è ben visibile nella fotografia in Chevallard 1995, p. 82).
[4] Cfr Stato di Servizio.
[5] Combattere sul fronte russo significava opporsi all’avanzata del comunismo che nell’enciclica Divini Redemptoris (19 marzo 1937) Papa Pio XI “indicava come il peggior nemico della fede cristiana”, Massobrio 2002, p. 157-158.
[6] Aimino 2014b, p. 32. L’avvio della disciplina alimentare in guerra: razionamento e tesseramento, https://www.storiologia.it/tabelle/popolazione07.htm (consultato il 4/1/2022).
[7] https://www.storiologia.it/tabelle/popolazione07.htm
[8] Lettera del 24/1/1943
[9] La S.I.P., in origine Società elettrometallurgica di Pont-Saint-Martin, società fondata nel 1887, per il trattamento elettrolitico del rame con sede a Milano, dal 1918 sotto la Direzione di Gian Giacomo Ponti, allievo e assistente di Thomas Edison, estese progressivamente i propri interessi industriali al settore della telefonia arrivando nel 1928 a controllare i tre quinti dell’industria telefonica italiana. Dopo la crisi del 1929, la S.I.P. entrò nel 1933 nell’orbita dell’IRI e divenne l’azionista di maggioranza dell’EIAR.
[10] https://www.museotorino.it/view/s/4e7d63348ad54c55aae80c3c5baa4002 (consultato il 6/2/2022).
[11] La Stampa del 5 febbraio, a p. 2, uscì con la programmazione del Colosseo ma nella notte il cinema era stato ridotto a un ammasso di macerie rese roventi dagli ordigni incendiari alla termite. L’ultimo film proiettato fu “Orizzonte di sangue”, in bianco e nero, di Gennaro Righelli con una giovanissima Valentina Cortese (1923-2019) (https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/orizzonte-di-sangue/2187/) (consultato il 6/2/2022). Dal 6 febbraio nella rubrica de La stampa non vi è più traccia della programmazione del Colosseo.
[12] Alessandria subì un unico bombardamento, il 30 aprile 1944, ma con numerose vittime civili https://www.isral.it/risorse-e-documenti/25-aprile-la-liberazione-e-il-movimento-partigiano/materiali-documenti-e-testimonianze/il-bombardamento-alleato-del-30-aprile-1944/ (consultato il 6/2/2022).
[13] don-felice-stroppiana-tenente-cappellano-dell81-rgt-2.pdf https://giardinocadutisulfronterusso.files.wordpress.com/2013/12/don-felice-stroppiana-tenente-cappellano-dell81-rgt-2.pdf (consultato il 27/12/2021).
[14] Revelli 2003, p. 126.
[15] Bianchi 2008, p. 103-104.
[16] Chevallard 1995, p. 73.
[17] Chevallard 1995, p. 74.
[18] Chevallard 1995, p. 81
[19] Del Boca 2005, p.265
[20] Enrico Adami Rossi (1880-1963).
[21] www.comune.parma.it/dizionarioparmigiani/ita/Gli%20anni%20del%20Littorio.aspx?idMostra=49&idNode=370 (visitato il 2/12/2022).
[22] Il bombardamento della notte tra il 7 e l’8 agosto si concentrò, come molti precedenti, tra la Mole Antonelliana e Porta Nuova e le rovine si accumularono sopra a quelle precedenti. Il bilancio fu di 111 tonnellate di bombe esplosive e 84 di ordigni incendiari con 20 morti e 79 feriti. A questo fece seguito quello del 13 e del 17 agosto con oltre venti morti, Servetti 1997, p. 25-26.
[23] Servetti 1997, p. 29
[24] Boccalatte 2006, p. 30.
[25] www.goticatoscana.eu/1943-1945-la-liberazione-in-toscana-la-storia-la-memoria/