Valter arrivò finalmente a casa dopo poco più di un mese, ma la casa non poteva considerarsi un rifugio sicuro. I nazifascisti erano ovunque. Almeno dal 13 settembre la città era percorsa da camion tedeschi che facevano retate dei giovani che incontravano[1]. Torino era ormai saldamente sotto i tedeschi: il governo della città era nelle mani di Rudolph Rahn, ambasciatore plenipotenziario del Reich presso il consolato di corso Vittorio Emanuele 78, e del Militärkommandantur 1005 con sede in corso Oporto (ora Matteotti)10, nonché dell’autorità poliziesca delle Waffen-SS di Karl Wolff, organizzata in polizia d’ordine (ORPO), polizia e servizio di sicurezza (Sipo/SD)[2]. Come fu annunciato da Radio Monaco il 15 settembre[3], nel volgere di pochi giorni si era passati da un’opprimente dittatura e da una guerra più inutile di altre a un’implacabile occupazione armata nazifascista.
Valter che fin lì aveva rispettato la gerarchia ed eseguito gli ordini in modo pressoché acritico, cercando di fare il proprio meglio, come gli avevano sempre insegnato i genitori e anche i preti, si trovava a un bivio pericoloso, a scelte che dipendevano solo da lui. “Era per tutti una scelta difficile, ma ancor più difficile per i giovani che erano stati educati quotidianamente a venerare Mussolini e i simboli del Littorio, e che di scelte individuali non ne avevano mai fatte”[4].
Mentre alcuni, prestando fede alle promesse di riscossa di Mussolini, si arruolavano e lo facevano per vecchie ambizioni, per convinzione, per paura o solo attratti da significative remunerazioni, altri fuggivano in montagna pronti a unirsi a bande più o meno organizzate, altri ancora, refrattari o solo indifferenti a ciò che stava accadendo loro intorno, cercavano di nascondersi per attendere l’evolversi degli eventi.
Valter ripensava al coraggio del cugino Don Felice e si domandava: “Che cosa mi avrebbe consigliato di fare?” e si rispondeva “Non mi avrebbe detto da che parte stare, ma mi avrebbe suggerito di scegliere secondo coscienza”.
Il lungo e travagliato cammino verso casa l’aveva forgiato e responsabilizzato. Gli anni tra i giovani cattolici gli avevano insegnato che i fascisti sapevano essere efferati quanto i nazisti e che combattere la prepotenza e la violenza poteva e doveva essere parte integrante degli ideali cattolici. Il coraggio, di cui non difettavano certo i suoi vent’anni, lo convinse che l’unica scelta possibile era quella di allontanarsi dalla famiglia, anche per non metterla in pericolo. Condivideva questa scelta con l’amico fidato Carlo Ibolino con il quale solitamente si incontrava al calar della sera al Ponte Principessa Isabella di corso Dante. Poco distante, in collina, conoscevano un luogo appartato e tranquillo dove poter parlare del loro futuro e delle scelte ineludibili. Non soggiornavano mai troppo a lungo a casa e spesso si fermavano a dormire fuori cercando di prendere contatti con chi organizzava le partenze per luoghi sicuri in montagna. Furono mesi di grandi incertezze, di pericoli quotidiani: la città era controllata dai nemici e bombardata dagli alleati. Dopo il bombardamento di Torino dell’8 novembre Teresa decise di tornare dai parenti ad Alessandria dove si fermerà fino ai primi di dicembre. Salutandola Valter le promise di scegliere con oculatezza dove andare e di unirsi solo a giovani come lui “educati e credenti”, e aggiunse “sicuramente non ai comunisti”.
Molti giovani erano già saliti in montagna dopo il bando tedesco, trasmesso da Radio Roma il 16 settembre[5], che intimava ai soldati italiani di presentarsi ai comandi tedeschi. Qualcuno, come Nuto Revelli, si domandava “perché i tedeschi continuano a fabbricare nemici, in grande stile, con i bandi terroristici. Ogni bando aumenta la cerchia dei renitenti”[6]. A convincere la maggior parte dei giovani ad entrare nella clandestinità e a unirsi alle bande i ribelli furono anche il primo bando Graziani di reclutamento militare obbligatorio del 9 novembre 1943 e quello del 18 febbraio (decreto legislativo n. 30), che sancirà la pena di morte anche per i renitenti e i disertori delle classi 1923-25. Ironicamente si attribuirà proprio ai bandi Graziani il merito di aver convinto un così gran numero di giovani a entrare nelle bande.
Anche se Valter era intenzionato ad essere fedele alla promessa fatta alla mamma non era affatto semplice aver notizie delle bande dichiaratamente cattoliche operanti in Piemonte, che non erano certo molte[7]. A metà dicembre Carlo e Valter riuscirono finalmente a incontrare alcuni amici della Gioventù cattolica che li indirizzarono alla sede diocesana della GIAC di via Arcivescovado da dove partivano molti giovani alla volta dei monti sopra Cumiana. Alla GIAC erano molto attivi sia il presidente, Leopoldo Saletti, sia il giovane Giorgio Catti[8], che con sprezzo del pericolo, informava i giovani universitari della FUCI e gli ex militari cattolici per prepararli alla partenza. Anche don Luigi Cocco[9] all’Istituto Valdocco teneva rapporti con le prime formazioni partigiane di ispirazione cattolica e organizzava la partenza dei giovani della GIAC alla volta della banda di Geuna, che rappresentava la prima banda cattolica del torinese.
La Curia e le bande. Se parroci e sacerdoti, di fronte alla difficile situazione dei giovani sbandati, non avevano dubbi sulla necessità di salvaguardarli avviandoli verso rifugi sicuri, non preoccupandosi eccessivamente se colà i giovani avrebbero incontrato anche partigiani valdesi o comunisti, la Curia non vorrà mai avere rapporti diretti con il CLN. Il Cardinal Fossati condannerà a più riprese il dilagare dell’odio, della vendetta, della violenza, senza mai prendere una chiara posizione sui renitenti alla leva. Anche nella lettera dei vescovi per la Pasqua del 1944 si auspicherà il ritorno alla concordia senza una chiara indicazione sul modo per raggiungerla[10], ma, come sottolinea don Peradotto, “le parole fortissime usate nei confronti degli «occupanti» (tedeschi e collaborazionisti) dicono quale fosse l’orientamento preferenziale dei vescovi” [11].
Le ragioni della scelta dei giovani cattolici era tutta nella domanda retorica che Valdo Fusi rivolse in quel tremendo autunno 1943 a Silvio Geuna “Ehi! It tradiras pà la Catolica?!”[12]
Alla sera Valter spiegò ai genitori quanto sapeva del gruppo di giovani di Cumiana. Per loro Cumiana poteva andar bene “Lì nessuno ti conosce. …basta che tu non vada in Val di Susa”. Valter si raccomandò di non rivelare a nessuno, neppure ai parenti, i suoi propositi e promise di far giungere sue notizie “Se vi consegneranno un mio messaggio scritto, leggetelo e subito buttatelo nel potagé”[13]. La mamma gli chiese di dare qualche informazione utile anche ai coniugi Costamagna, molto preoccupati per il figlio Giuseppe[14] del 1925 che in quei giorni era malato e non poteva allontanarsi da casa. Quella sera stessa Valter uscì sul pianerottolo, suonò loro per informarli, parlando però a bassa voce e con la dovuta cautela, per non destare sospetti[15]. Poi scese le scale per andare nella temporanea sistemazione in collina; il pianerottolo tornò al consueto spettrale silenzio: da tempo le conversazioni tra coinquilini si erano ridotte ai saluti, o poco più, e le poche parole uscivano a fatica frenate dal timore di essere ascoltati da qualche delatore celato da una tenda o da una porta socchiusa. Una figura incuteva particolare timore, quella del “capo fabbricato”, che era spesso lo stesso portinaio[16] oppure un condomino incaricato ufficialmente di far rispettare le norme del coprifuoco e soprattutto di riferire alle autorità la presenza di inquilini antifascisti. Spie e informatori potevano essere dappertutto e spesso, con comportamento ancor più spudorato e vergognoso, visitavano le famiglie di sospetti antifascisti e partigiani per ricattarle e saccheggiarne le abitazioni[17].
La condizione di chi aveva vissuto di persona lo sfascio dell’esercito italiano si faceva sempre più precaria: a Torino mentre non si fermavano i bombardamenti, proseguivano le retate e le deportazioni da parte dei nazisti e celarsi completamente diventava impossibile così come sfuggire a informatori e delatori.
A Valter e a Carlo fu assegnato il 15 febbraio come giorno della partenza: all’imbrunire Teresa, scostando un poco gli scuri, lo vide passare accanto alle macerie del cinema Colosseo e incontrarsi con Carlo. Gli occhi le diventarono lucidi, Feliciano, con un abbraccio rassicurante, le mormorò “Non preoccuparti, Teresa, tra poco la guerra finirà e Valter tornerà di nuovo con noi”.
I due amici raggiunsero la stazione dove salirono sul treno per Orbassano e di lì, confondersi tra i pendolari che avevano appena terminato il turno nelle fabbriche di Torino, presero la corriera per Cumiana[18].
Avevano fatto una scelta o quella era l’unica loro opzione possibile? Non si sentivano più dei militari, ma neppure dei ribelli: iniziava un’avventura senza un percorso segnato, una nuova vita senza certezze, una vita di banda, di clandestinità che diventerà ben presto una lotta quotidiana, dura, costellata di paure e sofferenze. Valter mai ne narrò, neppure in famiglia. Può avere un senso ora, a distanza di tanti anni, cercare di ripercorrere le sue peripezie attraverso documenti personali, resoconti e archivi? La risposta può essere solo quella che dà il partigiano Ennio Pistoi ai suoi nipoti “Voi siete così anche perché, prima di voi, ci sono stati questi ragazzi, questi uomini che hanno formato nel tempo le nostre coscienze, le nostre opinioni che di generazione in generazione cerchiamo di trasmettere ai giovani, non perché abbiano necessariamente le nostre, ma perché possano liberamente formare le loro sulla base di alcuni valori fondamentali. Mi riferisco ai valori della libertà, del rispetto, della tolleranza, della fratellanza, della bontà, i valori che segnano la parte più nobile della natura umana”[19].
[1] Chevallard 1995, p. 105.
[2] Servetti 1997, p. 53-54.
[3] Chevallard 1995, p. 109.
[4] Del Boca 2010, p. 271.
[5] Chevallard 1995, p. 110.
[6] Citato in Groppo 1990, p. 28.
[7] Bianchi 2011, p. 30.
[8]Intersimone 1972, p. 19-20. A Giorgio Catti sono intitolati un Centro studi e un “Fondo” di documenti sulla Resistenza, conservato presso l’Archivio dell’Arcivescovado di Torino. “ (https://www.anpi.it/donne-e-uomini/134/giorgio-catti)
[9] Intervista a Gino Baracco in Crivellin 2000, p. 38.
[10] Marchis 1987b, p. 293-296.
[11] F. Peradotto, “Cattolici nella resistenza: provocazione ad una ricerca”, in Marchis 1987, p. 129.
[12] Geuna 1977, p. 82.
[13] I messaggi alle famiglie venivano portati dai partigiani stessi. Silvio Geuna narra delle astuzie necessarie per trasportare quei documenti compromettenti (Geuna 1977, p.84).
[14] Giuseppe Costamagna (Bene Vagienna,1924-1995) diventerà un esponente di spicco della Democrazia Cristiana. Negli Anni Ottanta curò per Radio Radicale il programma settimanale “L’ora di Costamagna”. La scheda dell’ISTORETO conferma la sua residenza in via Madama Cristina 77, Torino.
[15] Pistoi 1997, p. 42.
[16] Franzinelli 2001, p. 55.
[17] Moorehead 2020, p. 161.
[18] Questo è il tragitto più volte compiuto da Silvio Geuna per recarsi da Torino a Cumiana (Geuna1977, p. 32 e 34).
[19] Pistoi 1997, p. 13.