Il poeta dei tempi della speranza.

Come faceva fin dal 1947, ogni domenica mattina, Valter si avviava a passo lesto verso il bar Patria di piazza Castello ripensando a quell’amico che qualche tempo prima gli aveva detto “Ij Brandé as treuvo sèmper al Patria. Pacòt a të speta là për conòss-te”. Pinin Pacòt[1] (all’anagrafe Giuseppe Pacotto, 1899-1964) era il maestro, Valter Agostini[2], Camillo Brero[3], Giovanni Morello[4], Giuseppe Gastaldi[5], i suoi allievi più fedeli.

Il “laboratorio” di Pacòt accrebbe in Valter il magico potere della poesia, il solo capace di dare voce alle sue paure, ai suoi dolori, alle sue speranze e delusioni. La lingua delle sue radici, delle sue montagne diventò l’unico mezzo in grado di affrancarlo dalle angosce di una guerra mai interamente superata soprattutto in chi come lui l’aveva combattuta fino all’ultimo minuto. La poesia fu la cura per lenire i turbamenti spirituali, e la notte il momento più adatto per immergersi in essa.

Anche se una sua poesia in italiano venne pubblicata nel 1948[6], il suo pennello preferì sempre dipingere a tinte piemontesi cercando di liberarsi dalle catene della retorica e delle rime stucchevoli anteguerra. La letteratura diventò la sua consolazione e, insieme, un sicuro appiglio.

Le sue letture erano spesso dettate dalla ricerca di nuove chiavi espressive: particolarmente cara gli fu l’antologia Liriche giapponesi[7]e i brevi componimenti  del genere haiku e tanka, che divennero ben presto i suoi modelli per esprimere la complessità dei suoi, talvolta contraddittori, sentimenti, come ripetuti scatti fotografici di solo presente. Quattro furono le poesie ispirate ai tanka giapponesi: “Spetandla“, ispirata a Beika Tanaka (vissuto a Niigata nella prima metà del secolo scorso)[8], “Nostalgìa ‘d ti“, ispirata a Takuboku Ishikawa (1886-1912)[9],  “Un soris“, ispirata a Takeshi Yanagisawa (1889-1953)[10], “Fiëtta ch’a speta l’amor“, ispirata a Yaso Saijō (1897-1970)[11]. In una lettera, Pinin Pacòt si complimentò per queste poesie che descrisse come “poeticamente e formalmente ben riuscite” aggiungendo che non era rilevante che fossero traduzioni o interpretazioni perché comunque “la traduzione è sempre una nuova creazione”. La sua lettera[12] proseguiva con l’invito a continuare sulla strada già intrapresa: “curando ancora di più la forma, perché la stoffa c’è”.

Pinin Pacòt[13] definiva la sua poesia “un po’ ermetica, dai tocchi fragilissimi, che sa suscitare fremiti di rara commozione”. Renzo Gandolfo[14] definirà la sua personalità: “inquieta, aperta alle più moderne esperienze delle nuove forme poetiche”. Camillo Brero[15] evidenzierà di lui la “tormentata partecipazione alla vita delle cose e uno smarrito trovarsi nel tempo” e la “trepida posizione del suo spirito su uno sfondo senza contorni”.

Per i giovani di Pacòt Valter era semplicemente “Il poeta dei tempi della speranza”, in contrapposizione con i tempi del ricordo che per Valter coincidevano drammaticamente con il “pantano, freddo, terre bianche e terre nere, sangue giovane di amici e nemici” dei lunghi mesi della Resistenza. E poi

E mila e mila e mila e mila cros

e mila e mila e mila e mila vos

che a crijo fòrt:

« Përchè ch’i soma mòrt? ».     (da “Cantada trista dij mòrt an guèra[16])

E forse a l’é tut lì

ël sens ëd mè dëstin:

meuire sël pont dl’avnì

mi sol con mè sagrin davzin.                (da “Cantada dl’ombra eterna[17])

Le sofferenze della guerra lo avevano irrimediabilmente allontanato dalla religiosità rituale della mamma e in cerca di una spiritualità più vera e profonda nel 1947 scelse come mete Firenze e Assisi, ad accompagnarlo gli amici Carlo e Nuccio. L’anno successivo fu la volta di Napoli e Pompei, questa volta con la penna, un quaderno e la fedele Kodac instamatic come unici compagni. Da questi viaggi traggono ispirazione due prose della serie “Itinerari spirituali” (Itinerari spirituai).

La lingua piemontese diventava la tavolozza a cui attingere i colori desiderati, la sola capace di condurlo amabilmente, quasi per mano, alle radici delle proprie emozioni, in particolare quelle vissute tra i monti della Val di Susa, che gli avevano insegnato la fatica del cammino e l’incanto degli spazi infiniti.

I suoi scarponi di cuoio logoro, riposti come dimenticati sul ripiano basso dello sgabuzzino, lo riportavano ai suoi vent’anni trafitti da quella guerra insensata, e diventavano allegoria di quel suo camminare sul ponte barcollante della vita senza troppo temere gli abissi.

Scarpon amis, ch’it l’has portame tant,

i vado ormai avanti sensa ’d ti;

finì l’è ’l temp dij seugn, ël temp dj’incant…

na pòrta a l’è sarasse daré ’d mi.      

 ’T ricòrde ch’i disìo: « Lagiù, mai!

Sla montagna i vivroma nòstra vita,

sla montagna la gòj dël nòstr travaj!

La valada për noi a l’é tròp cita ».                (da Scarpon amis[18])

Nella rossa campitura che fa da sfondo alle sue poesie, la struggente conclusione del suo Testament è un grido sommesso di speranza nella trepidante attesa di  un mondo migliore.

Nosgnor ch’a sta setà

sl’Himàlaya dij cej

a sa che s’i më struso vers ël mej,

s’i veuj smentié sta tèra conturbà,

smentié sò grev passà

sò fros avnì,

tut sòn lo faso e veuj, ma nen për mi. ….

Coma Nosgnor

dcò mi i son creator!

E i veuj creé e lassete an ardità

un mond polid, un mond sarvaj e dru,

ël mond ch’i l’hai sempe sugnà

e mai avù. (da Testament[19])


[1] Brero 1985, p. 51-67; Tesio-Malerba 2024, p. 34-45.

[2] Brero 1985, p. 272-278; Tesio-Malerba 2024, p. 252-254.

[3] Brero 1983, p. 246-259; Tesio-Malerba 2024, p. 105-111.

[4] Brero 1985, p. 268-272; Tesio-Malerba 2024, p. 278-280.

[5] Brero 1985, p. 278-282; Tesio-Malerba 2024, p. 268-270.

[6] La poesia “Malinconie” fu pubblicata nel 1948 nel volume Antologia del sonetto italiano contemporaneo, a cura di Mario Gastaldi, Milano-Roma, Gastaldi Editore, vol. I, p. 7.

[7] Leo Magnino, Liriche giapponesi, Milano, Garzanti, 1943.

[8] Ij Brandé, n. 22, 1° agosto 1947, p .86 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 19).

[9] Ij Brandé, n. 22, 1° agosto 1947, p. 86 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 20).

[10] Ij Brandé, n. 22, 1° agosto 1947, p. 86 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 21).

[11] Ij Brandé, n. 247, 15 gennaio 1957, p. 977 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 23)

[12] La lettera non è datata ma certamente risale al 1947, presumibilmente tra marzo e luglio; su invito di Pinin Pacòt (espresso in poche righe su una cartolina postale del 6 marzo 1947) Valter l’aveva incontrato e gli aveva consegnato le poesie.

[13] Ij Brandé 244, 1° dicembre 1956.

[14] Gandolfo 1972, p. 304-305. Sulla figura di Renzo Gandolfo v. Brero 1983, p.200-201.

[15] Brero 1983, p. 272-278,

[16] Ij Brandé, n. 182, 1° aprile 1954, p.721 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 51-52).

[17] Armanach ‘d Poesìa Piemontèisa, 1960, p.64 (ripubblicata in Agostini 1991, p. 57-58).

[18] Ij Brandé, n. 131, 15 febbraio 1952, p. 523 (ripubblicata in Brero 1983,  p.274. e in Agostini 1991, p.27).

[19] Piemontèis Ancheuj, Anno I, 3, marzo 1983, p.1 (ripubblicata in Agostini 1991, p.79-80, in Agenda, 2005 [pagina a fronte Nòte Stèmber] e in Arciciock 1990, p. 158)